Category: disegno

18
Giu

Maria Lai. Fame d’infinito

“All’essere umano non basta la terra sotto i piedi, non basta il sole sulla testa. L’uomo diventa adulto per realizzarsi oltre il proprio spazio e il proprio tempo”. Maria Lai

A distanza di un mese dalla riapertura della Stazione dell’Arte, il 26 giugno 2020 apre al pubblico il nuovo allestimento della collezione permanente dal titolo Maria Lai. Fame d’infinito. Arte da vedere, sentire, toccare: mai come in occasione del nuovo allestimento, le opere di Maria Lai attraverseranno ogni barriera fisica e intellettuale. Una mostra che è esperienza multisensoriale, concepita per favorire un nuovo approccio all’arte e nutrire la curiosità dei visitatori. Per soddisfare la nostra “Fame d’infinito”, l’esposizione recupera il dialogo diretto con il pubblico dopo lo stop per l’emergenza sanitaria e la riapertura dell’istituzione museale, avvenuta un mese fa.

La nuova esposizione aprirà al pubblico venerdì 26 giugno 2020, alle ore 15.00, negli spazi del museo fortemente voluto dall’artista ulassese, in piena sicurezza e nel rispetto delle indicazioni fornite dalle autorità preposte: ingressi contingentati (per un massimo di 10 persone alla volta) e mascherina obbligatoria.

La mostra è organizzata dalla Fondazione Stazione dell’Arte con il sostegno della Regione Autonoma della Sardegna, del Comune di Ulassai e della Fondazione di Sardegna. Curata da Davide Mariani, direttore del museo dedicato a Maria Lai, Fame d’infinito scandisce l’intero percorso dell’artista attraverso l’esposizione delle opere più significative da lei donate al Comune di Ulassai. La collezione restituisce, nella sua totalità, l’esperienza creativa di Maria Lai: dalle sculture ai disegni a matita e su china, dai telai alle tele cucite, dai celebri pani ai libri cuciti, dalle geografie alle installazioni e agli interventi ambientali.

Il progetto espositivo, concepito come un’esposizione permanente, è suddiviso secondo un ordine cronologico e tematico ed è arricchito dalla presenza di un sistema di apparati didattici, in italiano e in inglese, da alcune riproduzioni tattili dei manufatti in mostra e da un archivio multimediale interattivo.

MARIA LAI. FAME D’INFINITO
a cura di Davide Mariani
Museo Stazione dell’Arte
Ex Stazione ferroviaria, Ulassai (Nu)
Orari: dal martedì alla domenica, dalle 9:30 alle 19:30 (orario continuato) – ingressi contingentati
Chiusura settimanale: lunedì
Visite guidate: sospese
Per informazioni: Tel. 0782787055; e-mail: stazionedellarte@tiscali.it

Immagine in evidenza: Maria Lai Fame d’infinito. Installation view. Ph. E. Loi S. Melis Arasole Ç. Courtesy Fondazione Stazione dell’ Arte
13
Gen

Dalí & Magritte. Two surrealist icons in dialogue

The Royal Museums of Fine Arts of Belgium dedicate an exceptional exhibition to Salvador Dalí and René Magritte. For the first time ever, the connection and influences between the two greatest icons of the surrealist movement are highlighted.

Dalí and Magritte both aim to challenge reality, question our gaze and shake up our certainties. The Catalan and the Belgian show a fascinating proximity, despite their very different creations and personalities, which would eventually lead them to drift apart.In the spring of 1929, Salvador Dalí and René Magritte meet in Paris, surrounded by the great names of the artistic avant-garde. In August of the same year, at Dalí’s invitation, Magritte travels to Cadaqués, the Spanish painter’s home base. This surrealist summer – which also includes visits by Éluard, Miró and Buñuel – will prove decisive.

The exhibition reveals the personal, philosophical and aesthetic links between these two iconic artists through more than 100 paintings, sculptures, photographs, drawings, films and archival objects.

The “Dalí & Magritte” exhibition is held under the High Patronage of their Majesties the King and Queen and is organized by the RMFAB in collaboration with the Dalí Museum (St. Petersburg, Florida), the Gala-Salvador Dalí Foundation and the Magritte Foundation. More than 40 international museums and private collections have lent their masterpieces for this unique exhibition, which ties in with the festivities organised around the Magritte Museum’s 10th anniversary.
Exhibition curator: Michel Draguet, Director General of the RMFAB.

VIDEO Behind The Scenes at the exhibition DALÍ & MAGRITTE

Dalí & Magritte Two surrealist icons in dialogue

Royal Museums of Fine Arts of Belgium
Rue de la Régence/Regentschapsstraat 3
1000 Brussels
+32 (0)2 508 32 11
info@fine-arts-museum.be

Image: Magritte, The Blood of the World, 1925

03
Gen

Tomás Saraceno – Aria

Le opere di Tomás Saraceno (Argentina, 1973) possono essere interpretate come una ricerca continua tra arte, architettura, biologia, astrofisica e ingegneria. Le sue sculture sospese, i suoi progetti collettivi e le sue installazioni interattive propongono ed esplorano nuove forme sostenibili di vivere ed esperire la realtà che ci circonda. La sua arte coinvolge il pubblico in esperienze immaginative e partecipative per ripensare collettivamente il modo in cui abitiamo il mondo, al di là di una prospettiva solo umana.

In quello che costituisce il suo più grande progetto mai realizzato in Italia, l’artista trasformerà Palazzo Strozzi in un nuovo spazio unitario mettendo insieme sue celebri opere e una nuova grande produzione site specific. Affiancata da un ricco programma di attività interdisciplinari, la mostra creerà una sorta di organismo vivente tra l’umano e il non umano, il visibile e l’invisibile, in cui tutti gli esseri entrano in connessione contribuendo alla creazione di una nuova realtà condivisa.

Firenze – Palazzo Strozzi
Tomás Saraceno – Aria
a cura di Arturo Galansino
Dal 22 Febbraio 2020 al 19 Luglio 2020

Tutti i giorni inclusi i festivi 10.00-20.00; Giovedì 10.00-23.00

Enti promotori: Fondazione Palazzo Strozzi e Studio Tomás Saraceno

info: +39 055 2645155

info@palazzostrozzi.org

Immagine: Tomás Saraceno, A Thermodynamic Imaginary, 2018. Photography © Studio Tomás Saraceno, 2018

11
Nov

Dadamaino – Dare tempo allo spazio

La galleria A arte Invernizzi inaugura giovedì 28 novembre 2019 alle ore 18.30 una mostra personale di Dadamaino (Milano 1930 – 2004), che ripercorre i diversi momenti della ricerca dell’artista mettendo in luce l’unitarietà e la continuità che ne hanno segnato le scelte estetiche e personali nel corso del tempo.

“Nella feconda stagione di radicali azzeramenti linguistici – scrive Bruno Corà – a cavallo tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio del 1960, accanto alle proposte degli artefici di Azimuth Piero Manzoni ed Enrico Castellani, trova posto l’azione affiancatrice dell’opera di Dadamaino, integra figura tra quelle emerse dalla tensione spazialista avviata da Fontana. Ma, non diversamente da quegli artisti, Dadamaino raggiunge rapidamente un’autonomia linguistica autorevole e autonoma”.

All’ingresso della galleria si trova l’opera Oggetto ottico-dinamico (1962), in cui le diverse tessere in alluminio applicate su tavola dall’artista creano delle “scacchiere” variabili che guidano lo sguardo attraverso percezioni illusorie. Al primo piano della galleria sono esposti tre lavori appartenenti al ciclo de “La Ricerca del colore” (1967) in cui l’artista ha approfondito il rapporto che viene ad instaurarsi fra diverse coppie di colori combinate, in termini quantitativi e qualitativi, utilizzando i sette colori dello spettro (rosso, arancio, giallo, verde, celeste, blu e violetto) associati con bianco, nero e marrone. Nella stessa sala sono presenti anche due tavole del ciclo “Cromorilievi” (1974), in cui l’intenzionalità pittorica emerge, più che dalla variazione dei toni, dalla disposizione degli elementi geometrici utilizzati da Dadamaino per creare molteplici effetti dinamici e luministici che alludono alla profondità visiva. Nella seconda sala del piano superiore si trovano i lavori del ciclo “L’inconscio razionale” (1975-1977), in cui l’intreccio perpendicolare di linee orizzontali e verticali, che affiorano e si nascondono in modo discontinuo sulla superficie, si apre a componenti nuove, più legate a criteri irrazionali e inconsci. Negli ambienti successivi dello stesso piano sono esposte opere appartenenti alla serie dei “Volumi”, che l’artista ha realizzato tra il 1958 e il 1960, e che si differenziano in diverse tipologie, in relazione al numero dei fori realizzati sulla tela, fino a giungere ai “Volumi a moduli sfasati” (1960) in cui la superficie trasparente viene movimentata dalla fitta successione di fori regolari, praticati su fogli di materiale plastico sovrapposti. La riflessione sul segno che Dadamaino avvia con “L’inconscio razionale” viene maggiormente indagata al piano inferiore della galleria, dove nelle opere appartenenti al ciclo “Costellazioni” (1984-1987) – tra cui Ennetto, presentato alla XI Quadriennale di Roma del 1986 – si può notare una maggiore e progressiva apertura nel rapporto con lo spazio, in cui viene meno la dipendenza rispetto alla struttura lineare della scrittura. Il segno diviene via via una traccia, senza un preciso ordine di svolgimento, e si identifica come pura energia senza un inizio e una fine. Così, quasi fossero solchi nella superficie, i tratti che percorrono le opere della serie “Passo dopo passo” (1988-1990), “Il movimento delle cose” (1990-1996) e dei successivi “Sein und Zeit” (1997-2000), attraverso un minuto e costante proliferare di segni sulla superficie trasparente del poliestere, racchiudono il rapporto tra l’infinitamente piccolo del gesto preciso e chiuso nel momento definito dall’accadimento e l’infinitamente grande del tempo nel suo continuo scorrere.

In occasione della mostra verrà pubblicato un volume bilingue che ripercorrerà l’iter creativo di Dadamaino dalla fine degli anni Cinquanta al 2000, con la riproduzione delle opere in mostra, un saggio introduttivo di Bruno Corà, una poesia di Carlo Invernizzi e un aggiornato apparato bio-bibliografico.

DADAMAINO. DARE TEMPO ALLO SPAZIO
VOLUME CON SAGGIO DI: BRUNO CORÀ
PERIODO ESPOSITIVO: 28 NOVEMBRE 2019 – 5 FEBBRAIO 2020
ORARI: DA LUNEDÌ A VENERDÌ 10-13 15-19, SABATO SU APPUNTAMENTO

A ARTE INVERNIZZI
VIA DOMENICO SCARLATTI 12  20124  MILANO  ITALY
TEL. FAX +39 02 29402855  info@aarteinvernizzi.it

Immagine: Costellazioni, 1986

10
Ott

Musja. The Dark Side – Who is afraid of the Dark?

Christian Boltanski, Monica Bonvicini, Monster Chetwynd, Gino De Dominicis, Gianni Dessì, Flavio Favelli, Sheela Gowda, James Lee Byars, Robert Longo, Hermann Nitsch, Tony Oursler, Gregor Schneider, Chiharu Shiota

Curated by Danilo Eccher

Musja, the exhibition space in via dei Chiavari 7 in Rome presided over by Ovidio Jacorossi, becomes a private museum with the opening on October 9 of Who is afraid of the Dark?, the first exhibition within The Dark Side project, a three year programme curated by Danilo Eccher.

The vast art collection owned by Jacorossi, covering the period from the early 19th century Italian to the present, will be flanked by the most innovative contemporary trends in the international panorama in order to highlight the fundamental contribution of art to personal and collective growth. The new museum also sets out to become established as a focus for the development of civil society in Rome, and to carry forward cultural commitment, and dialogue with international public and private institutions and museums.

The complex thematic setting of The Dark Side project is organized into three exhibitions spread over three years, and dedicated to: “Fear of the Dark,” “Fear of Solitude,” and “Fear of Time.” The first event in the new exhibition programme—“Fear of the Dark”—brings together 13 of the most important international artists with large site-specific installations and large-scale artworks by established artists, such as Gregor Schneider, Robert Longo, Hermann Nitsch, Tony Oursler, Christian Boltanski, James Lee Byars as well as new protagonists on the contemporary art scene such as Monster Chetwynd, Sheela Gowda, and Chiharu Shiota. There is a substantial Italian component with works and installations by Gino De Dominicis, Gianni Dessì, Flavio Favelli, Monica Bonvicini. During the opening of the exhibition, and thereafter at monthly intervals, there will be a performance by “Differenziale Femminile,” a group of four actresses, in the rooms of the gallery.

The majority of the site-specific works will be produced especially for the exhibition, while others are loans from various institutions, galleries and some others are part of the Jacorossi collection. All of them were selected for their power to draw the viewer in and encourage reflection on the topic while, at the same time, introducing some essential aspects of current contemporary art research. Visitors will be able to analyse their own reactions to sensory and tactile experiences, theatrical and magical visions, rituals and settings, anxieties that take different and unexpected forms only to melt away.

The catalogue accompanying the exhibition, published by Silvana Editoriale, contains a wealth of images by all the participating artists as well as written contributions. In addition to Danilo Eccher’s contribution, there are also some intellectually complex views on the theme of the dark by theologian Gianfranco Ravasi, theoretical physicist Mario Rasetti, psychiatrist Eugenio Borgna and philosopher Federico Vercellone. Different points of view, cross-cutting approaches, intellectual fields that diverge, overlap and are interwoven, give the project much greater scope than a standard art exhibition.

In the course of the exhibition, Musja will also be holding a series of meetings on the theme, coordinated by Federico Vercellone, professor of Aesthetics in the Department of Philosophy at Turin University.

The Dark Side – Who is afraid of the Dark?
October 9, 2019–March 1, 2020

Musja
via dei Chiavari 7
Rome
Italy

Image artwork by Gino De Dominicis, Jacorossi collection

23
Set

Antony Gormley – Solo Exhibition

Acclaimed sculptor Antony Gormley presents his most significant solo exhibition for over a decade. A conversation between old works and new, it will span his wide-ranging practice and exploit the scale and light of the RA’s architecture.

This exhibition is intended as a form of adventure that invites both physical and imaginative participation. The body in Gormley’s work is not a protagonist in a narrative, nor an ideal, a portrait or a memorial – it is the body inand as space.

Early experimental sculptures, objects and drawings – often made using his own body as a primary tool, material and subject – are brought together with large scale environments made especially for the RA. Using organic, industrial and elemental materials, such as iron, steel, lead, seawater and clay, the solidity and certainty of sculpture is put to the test, acknowledging entropy, disintegration, the experience of disorientation. Our understanding of matter itself is under scrutiny – what it means to have a body, when every ‘thing’ is essentially space and energy. Sculpture, for Antony Gormley, is not treated as a ‘thing apart’, separate from its context; it is a means of interrogating and activating its space and place. His negotiation of the surface of the body, his preoccupation with the space within, treads the line between the body as a container of feeling, a living reality, our ‘condition’, and the body as an abstract entity.

From the British coastline to the rooftops of Manhattan, Antony Gormley’s sculptures are recognised across the world. With work from his 45-year career alongside major new installations created for the galleries of Royal Academy of Arts, it will be present his most ambitious exhibition in more than ten years.

Following in the footsteps of Ai Weiwei and Anselm Kiefer, Antony Gormley will be the next artist to take over our Main Galleries with a series of works that test the scale and light of the RA’s architecture. The exhibition will explore Gormley’s wide-ranging use of organic, industrial and elemental materials over the years, including iron, steel, hand-beaten lead, seawater and clay. We will also bring to light rarely-seen early works from the 1970s and 1980s, some of which led to Gormley using his own body as a tool to create work, as well as a selection of his pocket sketchbooks and drawings.

Throughout a series of experiential installations, some brand-new, some remade for the RA’s galleries, we will invite visitors to slow down and become aware of their own bodies. Highlights include Clearing VII, an immersive ‘drawing in space’ made from kilometres of coiled, flexible metal which visitors find their own path through, and Lost Horizon I, 24 life-size cast iron figures set at different orientations on the walls, floor and ceiling – challenging our perception of which way is up.

Perhaps best-known for his 200-tonne Angel of the North installation near Gateshead, and his project involving 24,000 members of the public for Trafalgar Square’s the Fourth Plinth, Antony Gormley is one of the UK’s most celebrated sculptors.

The exhibition is curated by Martin Caiger-Smith, with Sarah Lea, Curator at the Royal Academy of Arts.

Please note: if you are sensitive to enclosed spaces, one of the works may not be suitable for you to enter. Please ask a member of staff for the best route around. Some of the works contain water, sharp edges and materials that can transfer onto clothing.

Looking for Friends previews? Reserve your slot for 18-20 September

Antony Gormley
Solo Exhibition, Royal Academy of Arts, London, United Kingdom
September 21 – December 3, 2019

17
Giu

DORA MAAR in Paris

The largest French retrospective ever devoted to Dora Maar (1907-1997) invites you to discover all the facets of her work, through more than five hundred works and documents. Initially a professional photographer and surrealist before becoming a painter, Dora Maar is an artist of undeniable renown. Far beyond the image, to which she is all too often limited, of her intimate relationship with Picasso, this exhibition retraces the life of an accomplished artist and a free and independent intellectual.

The exhibition is organized by the Centre Pompidou, Musée national d’art moderne, in coproduction with the J. Paul Getty Museum (Los Angeles) and in collaboration with the Tate Modern (London).

PRESENTATION BY THE CURATORS
“To Dora of the varied, always beautiful, faces”. Lise Deharme’s dedication to her friend Dora Maar in a copy of Cœur de Pic (1937) poetically sums up the various facets of her artistic career: between photographer and painter, between youthful Surrealist revolution and the existential introspection that marked her painting activity after World War II.

With the collaboration of the J. Paul Getty Museum and in partnership with the Tate Modern, the exhibition organized by the Centre Pompidou aims to highlight, for the first time in a French museum, Dora Maar’s work as an artist, and not only as the muse and mistress of the Spanish painter Pablo Picasso. Although for many she remains the model of La femme qui pleure, Dora Maar has nevertheless recently enjoyed critical reception and recognition in studies dedicated to Surrealism and photography. Several exhibitions organized by the Musée National d’Art Moderne, “Explosante fixe” and, more recently, “La Subversion des images” and “Voici Paris”, accorded a special place to Dora Maar’s Surrealist work, with enigmatic photographs such as Portrait d’Ubu and Le Simulateur, a photomontage that joined the museum’s collections in 1973.
The donation of Simulateur was the beginning of the Centre Pompidou’s continued interest in Dora Maar’s photographic work. The 1980s and 1990s were marked by various acquisitions, culminating in 2011 with the arrival of ten prints from the Bouqueret collection. In 2004 the purchase of her studio collection, consisting of some one thousand eight hundred and ninety negatives and two hundred and eighty contact prints, made the collection preserved in the Musée National d’Art Moderne one of the largest public collections of Dora Maar’s work. The recent digitization of negatives has now rendered her work accessible to a large audience of researchers and amateurs. Dora Maar is the only artist with a large portfolio of photographs preserved in the collections – Brancusi, Brassaï, Éli Lotar, Man Ray – who has not yet been the subject of a major exhibition project. Thanks to original archives and close scientific collaboration between the curatorship teams at the Centre Pompidou and the Getty Museum, the Dora Maar retrospective traces the development of this independent artist through more than four hundred works and documents: from her first commissions for fashion and advertising as a studio photographer, to her political commitments as witnessed by her street photographs, including her Surrealist activity and her meeting with Picasso. Lastly, the exhibition shines a special spotlight on her work as a painter, an activity to which she devoted herself for nearly forty years. Like her fellow female photographers, Laure Albin Guillot, Rogi André, Nora Dumas and Germaine Krull, who were active like her between the wars, Dora Maar belongs to the generation of women who liberated themselves professionally and socially through their work as photographers, a profession that was undergoing complete renewal with the development of the illustrated press and advertising. After studying graphic art in the Comité des Dames of the Union des Arts Décoratifs, Dora Maar trained in photography in the late 1920s. Like her mentor, Emmanuel Sougez, she preferred to work in a studio and collaborated with Pierre Kéfer, a set designer for films, from 1931 to 1935. “Kéfer-Dora Maar” became the name and the official credit for the studio, figuring in prints and publications at the time, even when Dora Maar or Pierre Kéfer worked alone on projects. Kéfer’s social flair enabled them to specialise in portraits, fashion and advertising illustrations for the cosmetics sector. This exhibition accords a central position to Dora Maar, a professional photographer endowed with an inventiveness that combined great technical mastery with a dreamlike universe that was much praised by her contemporaries.Continue Reading..

09
Mag

Jannis Kounellis

Jannis Kounellis, curated by Germano Celant, is the major retrospective dedicated to the artist following his death in 2017. Developed in collaboration with Archivio Kounellis, the project brings together more 70 works from 1958 to 2016, from both Italian and international museums, as well as from important private collections both in Italy and abroad. The show explores the artistic and exhibition history of Jannis Kounellis (Piraeus 1936–Rome 2017), establishing a dialogue between his works and the eighteenth-century spaces of Ca’ Corner della Regina.

The artist’s early works, originally exhibited between 1960 and 1966, deal with urban language. These paintings reproduce actual writings and signs from the streets of Rome. Later on, the artist transferred black letters, arrows and numbers onto white canvases, paper or other surfaces, in a language deconstruction that expresses a fragmentation of the real. From 1964 onward, Kounellis addressed subjects taken from nature, from sunsets to roses. In 1967 Kounellis’ investigation turned more radical, embracing concrete and natural elements including birds, soil, cacti, wool, coal, cotton, and fire.

Kounellis moved from a written and pictorial language to a physical and environmental one. Thus the use of organic and inorganic entities transformed his practice into corporeal experience, conceived as a sensorial transmission. In particular, the artist explored the sound dimension through which a painting is translated into sheet music to play or dance to. Already in 1960, Kounellis began chanting his letters on canvas, and in 1970 the artist included the presence of a musician or a dancer. An investigation into the olfactory, which began in 1969 with coffee, continued through the 1980s with elements like grappa, in order to escape the illusory limits of the painting and join with the virtual chaos of reality.In the installations realized toward the end of the 1960s, the artist sets up a dialectic battle between the lightness, instability and temporal nature connected with the fragility of the organic element and the heaviness, permanence, artificiality and rigidity of industrial structures, represented by modular surfaces in gray-painted metal. In the same period Kounellis participated in exhibitions that paved the way to Arte Povera, which in turn translated into an authentic form of visual expression. An approach that recalls ancient culture, interpreted according to a contemporary spirit, in contrast with the loss of historical and social identity that took place during the postwar period. Beginning in 1967, the year of the so-called “fire daisy,” the phenomenon of combustion began to appear frequently in the artist’s work: a “fire writing” that enlights the transformative and regenerative potential of flames. At the height of the mutation, according to alchemical tradition, we find gold, employed by the artist in multiple ways. In the installation Untitled (Tragedia civile) (1975), the contrast between the gold leaf that covers a bare wall and the black clothing hanging on a coat hanger underlines the dramatic nature of a scene that alludes to a personal and historical crisis. In Kounellis’ work smoke, naturally connected with fire, functions both as a residual of a pictorial process, and as proof of the passage of time. The traces of soot on stones, canvases and walls that characterize some of his works from 1979 and 1980 indicate a personal “return to painting,” in opposition to the anti-ideological and hedonistic approach employed in a large part of the painting production in the 1980s. Throughout his artistic research Kounellis develops a tragic and personal relationship with culture and history, avoiding a refined and reverential attitude. He would eventually represent the past with an incomplete collection of fragments of classical statues, as in the work from 1974. Meanwhile, in other works the Greco-Roman heritage is explored through the mask, as in the 1973 installation made up of a wooden frame on which plaster casts of faces are placed. The door is another symbol of the artist’s intolerance for the dynamics of his present. The passageways between rooms are closed up with stones, wood, sewing machines and iron reinforcing bars, making several spaces inaccessible in order to emphasize their unknown, metaphysical and surreal dimension.Continue Reading..

30
Apr

Lygia Pape

Fondazione Carriero presents Lygia Pape, curated by Francesco Stocchi, the first solo exhibition ever held in an Italian institution on one of the leading figures of Neoconcretism in Brazil, organized in close collaboration with Estate Projeto Lygia Pape

Fifteen years after the death of Lygia Pape (Rio de Janeiro, 1927-2004), Fondazione Carriero sets out to narrate and explore the career of the Brazilian artist, emphasizing her eclectic, versatile approach. Across a career spanning over half a century, Pape came to grips with multiple languages—from drawing to sculpture, video to dance and poetry, ranging into installation and photography— absorbing the experiences of European modernism and blending them with the cultural tenets of her country, generating a very personal synthesis of artistic practices. Inserted in the architecture of the Foundation, the exhibition represents a true voyage in the artist’s world, organized in different spaces, each of which delves into one specific aspect of her work, through the presentation of nuclei of pieces from 1952 to 2000. The exhibition provides an opportunity for knowledge, analysis and investigation of an artist whose practice embodies some of the key areas of research of Post-War. 

The exhibition Lygia Pape offers visitors a chance to approach the artist’s output and to observe it from multiple vantage points, starting from analysis of her research, a synthesis of invention and contamination from which color, intuition and sensuality emerge. Full and empty, interior and exterior, presence and absence coexist, conveying Pape’s figure and continuous experimentation, sustained by an ability to combine materials and techniques through the use of unconventional modes and languages of expression. Seen as a whole, her research reveals the way each new project develops as a natural evolution of those that preceded it. These connections are highlighted in the display of the works, spreading through the three floors of the Foundation and linked together by a common root, a leitmotif that originates in observation of nature and develops in a maximum formal tension using a reduced vocabulary.
The works on view include Livro Noite e Dia and Livro da Criação, books seen as objects with which to establish a relationship, condensations of mental and sensory experiences. The Tecelares, a series of engravings on wood, combine the Brazilian folk tradition with the Constructivist research of European origin. The exhibition also features Tteia1, the distinguished installation that embodies Lygia Pape’s investigation of materials, the third dimension and the constant drive towards reinvention and reinterpretation of her language.
 Today her work offers interesting tools for the interpretation of the issues of our present, in an approach based less on rules and more on spontaneity, applied by the artist has a key for deconstructing the standards and schemes of preconceptions. 

About Fondazione Carriero
Fondazione Carriero opened to the public in 2015, thanks to the great passion of its founder for art and his desire to share this passion with the public. It is a non-profit institution that joins research activities to commissioning new works for solo, and group exhibitions.

With the creation of a free venue open to everyone, the Foundation aims to promote, enhance, and spread modern and contemporary art and culture, acting as a cultural center in collaboration with the most acclaimed and innovative contemporary artists while also drawing attention to new artists or those from the past who deserve to be reconsidered. From a perspective that joins rediscovery and experimentation, investigations into any form of intellectual expression are joined with commissioning new works.

Lygia Pape
March 28–July 21, 2019 

Fondazione Carriero
Via Cino del Duca 4 
20122 Milan 
Italy 
Hours: Monday–Saturday 11am–6pm H

Contact
T +39 02 3674 7039 
info@fondazionecarriero.org
press@fondazionecarriero.org

08
Apr

ROMAMOR di Anne et Patrick Poirier

A Villa Medici fino al 5 maggio 2019 è possibile visitare la prima mostra monografica di Anne e Patrick Poirier in Italia, ROMAMOR. A cura di Chiara Parisi, la mostra chiude l’ambizioso programma espositivo ideata da Muriel Mayette-Holtz – direttrice dal 2015 al 2018 – che ha visto alternarsi grandi nomi dal 2017, tra cui Annette Messager, Yoko Ono e Claire Tabouret, Elizabeth Peyton e Camille Claudel, Tatiana Trouvé e Katharina Grosse, senza dimenticare i numerosi artisti internazionali che hanno partecipato alla mostra nei giardini, Ouvert la Nuit. A questi progetti si sono affiancate le due grandi mostre dedicate ai pensionnaires, al crocevia tra ricerca e produzione, Swimming is Saving e Take Me (I’m yours).

Anne e Patrick Poirier sono tra le coppie francesi più celebri della scena artistica internazionale: una simbiosi creativa che ha preso corpo proprio a Villa Medici, cinquanta anni fa. Il trascorrere del tempo, le tracce e le cicatrici del suo passaggio, la fragilità delle costruzioni umane e la potenza delle rovine, antiche come contemporanee, sono la fonte cui attinge la loro creatività, assumendo le sembianze d’una archeologia permeata di malinconia e di gioco. Anne è nata nel 1941 a Marsiglia; Patrick nel 1942 a Nantes. Il loro lavoro è caratterizzato dall’impronta di violenza lasciata dall’epoca che hanno vissuto – loro che, sin dalla più tenera infanzia, si sono confrontati con la guerra e con i suoi paesaggi devastati. Nel 1943, Anne assiste ai bombardamenti del porto di Marsiglia, e Patrick perde suo padre durante la distruzione del centro storico di Nantes.

Vincitori del Grand Prix de Rome nel 1967, dopo aver frequentato l’École des arts décoratifs di Parigi, Anne e Patrick soggiornano a Villa Medici dal 1968 al 1972 – invitati da Balthus. Ed è proprio a Villa Medici che decidono di unire la loro visione artistica, firmando congiuntamente i lavori. Anne e Patrick Poirier appartengono a quella generazione di artisti che, viaggiando e aprendosi al mondo fin dagli anni Sessanta, sviluppa una fascinazione per le città e le civiltà antiche e, in particolare, i processi della loro scomparsa. In linea con questa sensibilità: città misteriose, ricostruzioni archeologiche immaginarie, fascino delle rovine, indagine di giardini, unione di opere storiche e produzioni in situ, sono gli elementi che danno vita alla mostra ROMAMOR a Villa Medici. La loro prima grande opera comune (1969), un plastico in terracotta di Ostia Antica, nasce dal ricordo delle varie peregrinazioni nell’antico porto romano, eletta dagli artisti terreno di scavi per eccellenza. Da allora, il proposito di ritrovare le tracce di una storia remota, li condurrà spesso a esperire l’assenza, la perdita delle architetture, dei segni e dell’eredità delle civiltà.

“Passiamo dall’ombra alla luce, alternativamente, dal nero al bianco, dall’ordine al caos, dalla rovina alla costruzione utopica, dal passato al futuro, e dalla introspezione alla proiezione. La duplice identità del nostro binomio di architetti-archeologi è ciò che consente questa erranza tra universi apparentemente lontani tra loro, dei quali cerchiamo le relazioni nascoste”, secondo le parole degli artisti. A Villa Medici, la mostra si apre con una La Palissade/Scavi in corso (2019) che conduce lo spettatore nello spazio della Cisterna offrendogli la visione di una monumentale maquette di rovine, Finis Terrae (2019) illuminate da una scritta Un monde qui se fait sauter lui-même ne permet plus qu’on lui fasse le portrait (2001). Permeato da queste prime visioni, lo spettatore entra nella prima sala con la presenza magica di una scultura luminosa, Le monde à l’envers (2019), costruita a partire di un globo terrestre e costellazioni, che confluisce in un autoritratto degli artisti sotto forma di Giano Bifronte, dio dell’inizio e della fine, rivolto al futuro sempre con un occhio al passato. Un’opera ambivalente, manifesto della mostra, da leggere come contrappunto all’arazzo Palmyre (2018), sulla devastazione del sito siriano da parte dell’Isis nel 2015. Lo spettatore prosegue trovando, al centro della sala successiva, L’incendie de la grande bibliothèque (1976), opera fondamentale degli artisti, realizzata a carbone, metafora architettonica della memoria, della mente umana e del suo funzionamento. A metà tra catastrofe e utopia, tra storia e mito, quest’opera pone lo spettatore di fronte al senso di fragilità caratteristico delle opere di Anne e Patrick Poirier. Ouranopolis (1995), ovvero la “città celeste”, occupa la sala successiva. “Dall’esterno, quasi nulla si vede”: sospesa al soffitto, la scultura consente di intravedere attraverso minuscoli fori, uno spazio interno che conta quaranta sale. Anne e Patrick parlano dell’amore che nutrono per le biblioteche, intese come metafore della memoria; un’attrazione che li conduce a creare dei musei-biblioteche ideali, in questo caso un edificio ellittico che sembra poter volare verso nuovi mondi, trasportando lontano il suo carico di immagini di fronte a una possibile catastrofe imminente. Lo spazio onirico che lo spettatore intravede dagli oblò si sviluppa, lungo la grande scalinata delle antiche scuderie di Villa Medici, catapultandolo all’interno di una “irrealtà inquietante”. Uno spazio luminoso, Le songe de Jacob (2019), composto da nomi di costellazioni, scale fosforescenti, forme serpentine sospese, piume bianche sparse sulla scalinata accompagnano il passo dello spettatore, gradino dopo gradino, sino a raggiungere lo spazio successivo, di immacolato candore, dove appare Rétrovisions(2018), autoritratto tridimensionale della coppia che si riflette in uno specchio, circondata da parole al neon che parlando di utopia, illuminano lo spazio, abbagliandoci. Poco lontano, Surprise Party (1996): un mappamondo sgonfio e sbiadito poggiato su un vecchio giradischi crepitante, a sua volta posato su una vecchia valigia – altro elemento chiave del vocabolario dei Poirier – che evoca una geografia nomade, “un mondo che gira al contrario. Una terra che stride”. Tra vertigini e vestigia, lo spettatore si trova di fronte a Dépôt de mémoire et d’oubli(1989): una croce che svetta, fatta di impronte lasciate sulla carta di maschere di dei antichi. Con l’opera Lost Archetypes (1979), lo sguardo si trova davanti alla ricostruzione in scala umana di grandi opere architettoniche: una serie di quattro plastici bianchi di siti in rovina. Tra passato, presente e futuro, caduta, costruzione ed elevazione, Anne e Patrick Poirier fanno vacillare i punti di riferimento storici del pubblico romano. Nella sala successiva, i collages: disegni vegetali fissati nella cera, Journal d’Ouranopolis (1995), un tentativo di lottare contro la privazione della memoria e dell’oblio. La sensazione di vulnerabilità, che presiede alla distruzione del nostro mondo, si ritrova nelle immagini di Fragility e Ruins (1996). La mostra si estende al giardino di Villa Medici: nel Piazzale, gli artisti disegnano con delle pietre di marmo di Carrara, la forma di un cervello umano, Le Labyrinthe du Cerveau (2019), con i suoi due emisferi. Un “manifesto autobiografico bicefalo”, che raffigura la congiunzione delle loro menti, metafora di una pratica di coppia che rievoca la tematica da loro esplorata negli ultimi cinquant’anni: i meccanismi legati al passare del tempo. Le loro costruzioni sono come grandi cervelli, paesaggio che bisogna percorrere. Amano dire, a questo proposito: “L’immagine del cervello, fatto di due emisferi, è ciò che meglio può rappresentarci; rappresentare contemporaneamente l’unità e la diversità della simbiosi che siamo”. Il visitatore continua la sua passeggiata immaginando di prendere una pausa nella monumentale sedia in granito, Siège Mesopotamia (2012-15) che troneggia nel giardino. Poco lontano, nella Fontana dell’obelisco, si intravede Regard des Statues (2019): anonimi occhi in gesso ci appaiono deformati dall’acqua in cui sono immersi. L’occhio che guarda il cielo, il tempo, l’occhio del ricordo e dell’oblio, l’occhio della storia e della violenza, conduce lo spettatore all’Atelier Balthus, dove emerge un’opera mitica, realizzata proprio a Villa Medici nel 1971: stele di carta, costruite a partire dai calchi delle Erme – le figure in marmo che costellano i viali del giardino della Villa – accompagnate da libri-erbari, “quaderni che recano annotazioni personali e disegni”, e medaglioni di porcellana su cui sono raffigurate le stesse immagini funebri. La parola che dà nome alla mostra, ROMAMOR (2019), appare in neon nel portico dell’Atelier Balthus in omaggio a questa città così importante da un punto di vista artistico e umano per i due artisti.Continue Reading..