Tag: amalia di Lanno

18
Apr

Latifa Echakhch – Romance

Fondazione Memmo presenta, da venerdì 3 maggio, Romance, personale dell’artista franco-marocchina Latifa Echakhch, a cura di Francesco Stocchi.

Romance nasce dall’invito rivolto dalla Fondazione Memmo a Latifa Echakhch, per la realizzazione di un progetto inedito a partire dalle suggestioni derivanti dal suo incontro con il paesaggio, le atmosfere, la storia e le vicende socio-culturali di Roma.

La mostra trae origine da un processo di avvicinamento graduale che ha portato l’artista a scoprire, interiorizzare e tradurre gli stimoli raccolti nel corso delle sue visite.

Il titolo della mostra, Romance, riassume lo spirito dell’intervento di Latifa Echakhch volto a rappresentare la stratificazione architettonica, culturale e geologica della città, in cui si intrecciano differenti periodi storici e si mescolano molteplici linguaggi e registri espressivi. L’artista è interessata a esprimere questo sentimento di trasporto, di indagine e sorpresa attraverso un’istallazione realizzata negli spazi della Fondazione Memmo (le antiche scuderie di Palazzo Ruspoli): un’opera immersiva, inedita che richiama – sia concettualmente, sia per la tecnica realizzativa – i “capricci” architettonici in materiale cementizio che ornano i giardini di fine Ottocento.

Questa mostra segna una ulteriore tappa del percorso attraverso cui la Fondazione Memmo intende promuovere l’incontro di artisti internazionali con il tessuto produttivo e artigianale della città di Roma attraverso la produzione di progetti espositivi che rivisitino materiali e tecniche tradizionali.

Latifa Echakhch _ Romance
A cura di Francesco Stocchi
Anteprima stampa: 2 maggio 2019, ore 11.30
Vernissage: 2 maggio 2019, ore 18.00
Dal 3 maggio al 27 ottobre 2019

Orario: tutti i giorni dalle 11.00 alle 18.00 (martedì chiuso)
Ingresso libero

CONTATTI PER LA STAMPA
PCM Studio
Via Farini, 70 | 20159 Milano
www.paolamanfredi.com

08
Apr

ROMAMOR di Anne et Patrick Poirier

A Villa Medici fino al 5 maggio 2019 è possibile visitare la prima mostra monografica di Anne e Patrick Poirier in Italia, ROMAMOR. A cura di Chiara Parisi, la mostra chiude l’ambizioso programma espositivo ideata da Muriel Mayette-Holtz – direttrice dal 2015 al 2018 – che ha visto alternarsi grandi nomi dal 2017, tra cui Annette Messager, Yoko Ono e Claire Tabouret, Elizabeth Peyton e Camille Claudel, Tatiana Trouvé e Katharina Grosse, senza dimenticare i numerosi artisti internazionali che hanno partecipato alla mostra nei giardini, Ouvert la Nuit. A questi progetti si sono affiancate le due grandi mostre dedicate ai pensionnaires, al crocevia tra ricerca e produzione, Swimming is Saving e Take Me (I’m yours).

Anne e Patrick Poirier sono tra le coppie francesi più celebri della scena artistica internazionale: una simbiosi creativa che ha preso corpo proprio a Villa Medici, cinquanta anni fa. Il trascorrere del tempo, le tracce e le cicatrici del suo passaggio, la fragilità delle costruzioni umane e la potenza delle rovine, antiche come contemporanee, sono la fonte cui attinge la loro creatività, assumendo le sembianze d’una archeologia permeata di malinconia e di gioco. Anne è nata nel 1941 a Marsiglia; Patrick nel 1942 a Nantes. Il loro lavoro è caratterizzato dall’impronta di violenza lasciata dall’epoca che hanno vissuto – loro che, sin dalla più tenera infanzia, si sono confrontati con la guerra e con i suoi paesaggi devastati. Nel 1943, Anne assiste ai bombardamenti del porto di Marsiglia, e Patrick perde suo padre durante la distruzione del centro storico di Nantes.

Vincitori del Grand Prix de Rome nel 1967, dopo aver frequentato l’École des arts décoratifs di Parigi, Anne e Patrick soggiornano a Villa Medici dal 1968 al 1972 – invitati da Balthus. Ed è proprio a Villa Medici che decidono di unire la loro visione artistica, firmando congiuntamente i lavori. Anne e Patrick Poirier appartengono a quella generazione di artisti che, viaggiando e aprendosi al mondo fin dagli anni Sessanta, sviluppa una fascinazione per le città e le civiltà antiche e, in particolare, i processi della loro scomparsa. In linea con questa sensibilità: città misteriose, ricostruzioni archeologiche immaginarie, fascino delle rovine, indagine di giardini, unione di opere storiche e produzioni in situ, sono gli elementi che danno vita alla mostra ROMAMOR a Villa Medici. La loro prima grande opera comune (1969), un plastico in terracotta di Ostia Antica, nasce dal ricordo delle varie peregrinazioni nell’antico porto romano, eletta dagli artisti terreno di scavi per eccellenza. Da allora, il proposito di ritrovare le tracce di una storia remota, li condurrà spesso a esperire l’assenza, la perdita delle architetture, dei segni e dell’eredità delle civiltà.

“Passiamo dall’ombra alla luce, alternativamente, dal nero al bianco, dall’ordine al caos, dalla rovina alla costruzione utopica, dal passato al futuro, e dalla introspezione alla proiezione. La duplice identità del nostro binomio di architetti-archeologi è ciò che consente questa erranza tra universi apparentemente lontani tra loro, dei quali cerchiamo le relazioni nascoste”, secondo le parole degli artisti. A Villa Medici, la mostra si apre con una La Palissade/Scavi in corso (2019) che conduce lo spettatore nello spazio della Cisterna offrendogli la visione di una monumentale maquette di rovine, Finis Terrae (2019) illuminate da una scritta Un monde qui se fait sauter lui-même ne permet plus qu’on lui fasse le portrait (2001). Permeato da queste prime visioni, lo spettatore entra nella prima sala con la presenza magica di una scultura luminosa, Le monde à l’envers (2019), costruita a partire di un globo terrestre e costellazioni, che confluisce in un autoritratto degli artisti sotto forma di Giano Bifronte, dio dell’inizio e della fine, rivolto al futuro sempre con un occhio al passato. Un’opera ambivalente, manifesto della mostra, da leggere come contrappunto all’arazzo Palmyre (2018), sulla devastazione del sito siriano da parte dell’Isis nel 2015. Lo spettatore prosegue trovando, al centro della sala successiva, L’incendie de la grande bibliothèque (1976), opera fondamentale degli artisti, realizzata a carbone, metafora architettonica della memoria, della mente umana e del suo funzionamento. A metà tra catastrofe e utopia, tra storia e mito, quest’opera pone lo spettatore di fronte al senso di fragilità caratteristico delle opere di Anne e Patrick Poirier. Ouranopolis (1995), ovvero la “città celeste”, occupa la sala successiva. “Dall’esterno, quasi nulla si vede”: sospesa al soffitto, la scultura consente di intravedere attraverso minuscoli fori, uno spazio interno che conta quaranta sale. Anne e Patrick parlano dell’amore che nutrono per le biblioteche, intese come metafore della memoria; un’attrazione che li conduce a creare dei musei-biblioteche ideali, in questo caso un edificio ellittico che sembra poter volare verso nuovi mondi, trasportando lontano il suo carico di immagini di fronte a una possibile catastrofe imminente. Lo spazio onirico che lo spettatore intravede dagli oblò si sviluppa, lungo la grande scalinata delle antiche scuderie di Villa Medici, catapultandolo all’interno di una “irrealtà inquietante”. Uno spazio luminoso, Le songe de Jacob (2019), composto da nomi di costellazioni, scale fosforescenti, forme serpentine sospese, piume bianche sparse sulla scalinata accompagnano il passo dello spettatore, gradino dopo gradino, sino a raggiungere lo spazio successivo, di immacolato candore, dove appare Rétrovisions(2018), autoritratto tridimensionale della coppia che si riflette in uno specchio, circondata da parole al neon che parlando di utopia, illuminano lo spazio, abbagliandoci. Poco lontano, Surprise Party (1996): un mappamondo sgonfio e sbiadito poggiato su un vecchio giradischi crepitante, a sua volta posato su una vecchia valigia – altro elemento chiave del vocabolario dei Poirier – che evoca una geografia nomade, “un mondo che gira al contrario. Una terra che stride”. Tra vertigini e vestigia, lo spettatore si trova di fronte a Dépôt de mémoire et d’oubli(1989): una croce che svetta, fatta di impronte lasciate sulla carta di maschere di dei antichi. Con l’opera Lost Archetypes (1979), lo sguardo si trova davanti alla ricostruzione in scala umana di grandi opere architettoniche: una serie di quattro plastici bianchi di siti in rovina. Tra passato, presente e futuro, caduta, costruzione ed elevazione, Anne e Patrick Poirier fanno vacillare i punti di riferimento storici del pubblico romano. Nella sala successiva, i collages: disegni vegetali fissati nella cera, Journal d’Ouranopolis (1995), un tentativo di lottare contro la privazione della memoria e dell’oblio. La sensazione di vulnerabilità, che presiede alla distruzione del nostro mondo, si ritrova nelle immagini di Fragility e Ruins (1996). La mostra si estende al giardino di Villa Medici: nel Piazzale, gli artisti disegnano con delle pietre di marmo di Carrara, la forma di un cervello umano, Le Labyrinthe du Cerveau (2019), con i suoi due emisferi. Un “manifesto autobiografico bicefalo”, che raffigura la congiunzione delle loro menti, metafora di una pratica di coppia che rievoca la tematica da loro esplorata negli ultimi cinquant’anni: i meccanismi legati al passare del tempo. Le loro costruzioni sono come grandi cervelli, paesaggio che bisogna percorrere. Amano dire, a questo proposito: “L’immagine del cervello, fatto di due emisferi, è ciò che meglio può rappresentarci; rappresentare contemporaneamente l’unità e la diversità della simbiosi che siamo”. Il visitatore continua la sua passeggiata immaginando di prendere una pausa nella monumentale sedia in granito, Siège Mesopotamia (2012-15) che troneggia nel giardino. Poco lontano, nella Fontana dell’obelisco, si intravede Regard des Statues (2019): anonimi occhi in gesso ci appaiono deformati dall’acqua in cui sono immersi. L’occhio che guarda il cielo, il tempo, l’occhio del ricordo e dell’oblio, l’occhio della storia e della violenza, conduce lo spettatore all’Atelier Balthus, dove emerge un’opera mitica, realizzata proprio a Villa Medici nel 1971: stele di carta, costruite a partire dai calchi delle Erme – le figure in marmo che costellano i viali del giardino della Villa – accompagnate da libri-erbari, “quaderni che recano annotazioni personali e disegni”, e medaglioni di porcellana su cui sono raffigurate le stesse immagini funebri. La parola che dà nome alla mostra, ROMAMOR (2019), appare in neon nel portico dell’Atelier Balthus in omaggio a questa città così importante da un punto di vista artistico e umano per i due artisti.Continue Reading..

08
Apr

Jan Fabre. Oro Rosso

L’artista belga di fama mondiale Jan Fabre torna a Napoli con un nuovo progetto che coinvolge quattro luoghi di grande prestigio: il Museo e Real Bosco di Capodimonte, la chiesa del Pio Monte della Misericordia, il Museo Madre e la galleria Studio Trisorio.

Al Museo e Real Bosco di Capodimonte, l’artista esporrà un gruppo di lavori in dialogo con una selezione speciale di opere d’arte provenienti dalla collezione permanente del museo e da altre istituzioni museali napoletane.  La mostra, dal titolo Oro Rosso. Sculture d’oro e corallo, disegni di sangue, curata da Stefano Causa insieme a Blandine Gwizdala, inaugurerà il 30 marzo e vedrà sculture in oro e disegni di sangue creati dall’artista dagli anni Settanta ad oggi, oltre a una serie inedita e sorprendente di sculture in corallo rosso, realizzata appositamente per Capodimonte.

Le opere di Fabre si porranno in dialogo con alcuni capolavori pittorici e splendidi oggetti d’arte decorativa di epoca rinascimentale, manierista e barocca selezionati Stefano Causa; come dice lo stesso curatore: “Fabre racconta, in una lingua non troppo diversa, una vicenda di metamorfosi incessanti; di materiali che mutano destinazione e funzione; una storia di sangue e umori corporali, inganni e trappole del senso; pietre preziose, coralli e scarabei, usciti a pioggia dai residuati di una tomba egizia, frammenti di armature, sequenze di numeri e citazioni dalle Scritture, dentro un universo centrifugo di segni…che, talvolta, diventa un sottobosco nel quale calarsi con i pennellini di uno specialista fiammingo di nature morte”.
In mostra, le sculture dorate di Jan Fabre danno corpo prezioso alle idee dell’artista sulla creazione, sull’arte e sul suo rapporto con i grandi maestri del passato. Nei disegni di sangue si ritrovano invece le più profonde motivazioni dell’artista, le sue sperimentazioni, il suo manifesto poetico, fisico, intimo.
“Il sangue oggi è oro” – dice Jan Fabre – e nell’esposizione al Museo di Capodimonte l’artista mette in scena un intero universo di simboli che parlano d’arte e di bellezza, di forza e fragilità del genere umano, del ciclo continuo di vita-morte-rinascita.
Il corallo è stato chiamato “oro rosso”, per la sua preziosità e per la sua valenza apotropaica. Come scrive la critica d’arte Melania Rossi sul catalogo della mostra edito da Electa: “Le dieci nuove sculture di corallo rosso che il maestro belga ha creato per la sua mostra personale al museo di Capodimonte sembrano un tesoro proveniente dagli abissi della mente dell’artista. Concrezioni che fanno pensare a fantasiose barriere coralline assumono alcune tra le forme più care a Fabre: teschi, cuori anatomici, croci, spade e pugnali. A loro volta, poi, costellati d’immagini e segni che alludono ad altri significati e ad altre storie, in un ciclo continuo di connessioni fino a creare antichi ibridi tra natura e simbolo, nuovi idoli tra passato e futuro”.
Sempre dal 30 marzo, a cura di Melania Rossi, la scultura di Jan Fabre The man who bears the cross (L’uomo che sorregge la croce)(2015), sarà visibile nella chiesa del Pio Monte della Misericordia, in dialogo diretto con il capolavoro di Caravaggio Sette opere di Misericordia (1606-1607).
La scultura, realizzata completamente in cera, è un autoritratto dell’artista, basato sui tratti somatici dello zio Jaak Fabre, che tiene in bilico una croce di oltre due metri sul palmo della mano. Nel rituale auto-rappresentativo l’artista esce da sé stesso e diviene qualunque uomo, lo specchio di ognuno di noi. Scrive la curatrice: “L’uomo che sorregge la croce (2015) è la rappresentazione dell’interrogarsi, è la celebrazione del dubbio, e con la sua collocazione all’interno del Pio Monte della Misericordia sembra aggiungere un’ottava Opera di Misericordia: confortare chi dubita. Nel dipinto di Caravaggio, il bello e il vero coincidono mirabilmente e la sua opera è un incredibile intreccio di luce e buio in cui la volontà di rappresentare la verità dell’essere umano del 1600 trova piena soddisfazione. Tutta la ricerca di Jan Fabre, artista del nostro tempo, va nella stessa direzione; il ciclo vita-morte-rinascita è centrale nel suo pensiero in cui religione e scienza, simbolo e corpo si compenetrano in un vortice geniale di immagini e azioni”. Il confronto tra il linguaggio seicentesco di Caravaggio e quello contemporaneo fiammingo di Fabre accenderà nuove riflessioni, segnando un ideale e virtuoso passaggio di testimone tra passato e presente artistici.

Dal 30 marzo, inoltre, il Museo Madre, a cura di Andrea VilianiMelania Rossi e Laura Trisorio, ospiterà in anteprima l’iconica sculturaL’uomo che misura le nuvole (2018), in un’inedita versione in marmo di Carrara allestita nel Cortile d’onore del museo regionale d’arte contemporanea.
Dopo la presentazione nel 2008 e nel 2017 della versione in bronzo della stessa scultura in Piazza del Plebiscito e sul terrazzo del museo, Jan Fabre torna a celebrare al Madre la capacità di immaginare, sognare e conoscere, elevandosi oltre il nostro destino di esseri umani. L’uomo che misura le nuvole si ispira dall’affermazione che l’ornitologo Robert Stroud pronunciò nel momento della liberazione dalla prigione di Alcatraz, quando dichiarò che si sarebbe d’ora in poi dedicato appunto a “misurare le nuvole”. Come artista e ricercatore, Fabre tenta costantemente, in effetti, di misurare le nuvole, ovvero di dichiarare con la sua opera che se la tensione verso il sapere ha limiti invalicabili è però possibile esprimere l’inesprimibile attraverso la ricerca artistica, e dare quindi rappresentazione all’intrinseca e fondativa bellezza umana e universale.

Presso la storica galleria Studio Trisorio, sarà esposta una selezione di opere di Jan Fabre realizzate completamente con di gusci di scarabei iridescenti.
La mostra, dal titolo Tribute to Hieronymus Bosch in Congo (Omaggio a Hieronymus Bosch in Congo), a cura di Melania Rossi e Laura Trisorio, inaugurerà il 29 marzo e vedrà dei grandi pannelli e delle sculture a mosaico di scarabei ispirati alla triste e violenta storia della colonizzazione del Congo belga. In queste opere, l’ispirazione storica si unisce alla simbologia medioevale tratta da uno dei più grandi maestri fiamminghi, uno dei maestri putativi di Jan Fabre, Hieronymus Bosch, e in particolare dal suo capolavoro Il Giardino delle Delizie (1480-1490).
L’inferno di Bosch, ammirato per la sua spiccata inventiva, per molti aspetti divenne una realtà raccapricciante nel Congo Belga. L’opera d’arte è proprio questa combinazione unica di forma e contenuto. L’artista ci porta in una zona indefinita, tra il Paradiso e il Congo Belga, in un’illusione di libertà, in un luogo lontano, sia mitico che concreto, attraverso una polisemia di immagini dell’esistenza umana.

Jan Fabre. Oro Rosso
Sculture d’oro e corallo, disegni di sangue.
Museo e Real Bosco di Capodimonte
Via Miano 2, Napoli
30 marzo – 15 settembre 2019

Jan Fabre. L’uomo che sorregge la croce.
Pio Monte della Misericordia
Via dei Tribunali 253, Napoli
30 marzo – 30 settembre 2019

Jan Fabre. Omaggio a Hieronymus Bosch in Congo.

Studio Trisorio
Riviera di Chiaia 215, Napoli
29 marzo – 30 settembre 2019

Jan Fabre. L’uomo che misura le nuvole
Museo Madre
Via Luigi Settembrini 79, Napoli
30 marzo – 30 settembre 2019

NAPOLI: Museo e Real Bosco di Capodimonte e altre sedi
Dal 29 Marzo 2019 al 30 Settembre 2019
Ente promotore: MiBAC – Museo e Real Bosco di Capodimonte
T.+39 081 7499111
mu-cap@beniculturali.it

Immagine: Jan Fabre, Golden Human Brain with Angel Wings, 2011. Nero Assoluto / bronzo silicato, oro 24 carati, granito Nero Assoluto, 28×30,5×26 cm

29
Mar

Jenny Holzer: Thing Indescribable

The Guggenheim Museum Bilbao presents Jenny Holzer: Thing Indescribable, a survey of work by one of the most outstanding artists of our time. Sponsored by the Fundación BBVA, this exhibition features new works, including a series of light projections on the facade of the museum, which can be viewed each night from March 21 to March 30. Holzer’s work has been part of the museum’s fabric since its beginnings, in the form of the imposing Installation for Bilbao (1997). Installed in the atrium, the work—commissioned for the museum’s opening—is made up of nine luminous columns, each more than 12 meters high. Since last year, this site-specific work has been complemented by Arno Pair (2010), a set of engraved stone benches gifted to the museum by the artist.

The reflections, ideas, arguments, and sorrows that Holzer has articulated over a career of more than 40 years will be presented in a variety of distinct installations, each with an evocative social dimension. Her medium—whether emblazoned on a T-shirt, a plaque, a painting, or an LED sign—is language. Distributing text in public space is an integral aspect of her work, starting in the 1970s with posters covertly pasted throughout New York City and continuing in her more recent light projections onto landscape and architecture.

Visitors to this exhibition will experience the evolving scope of the artist’s practice, which addresses the fundamental themes of human existence—including power, violence, belief, memory, love, sex, and killing. Her art speaks to a broad and ever-changing public through unflinching, concise, and incisive language. Holzer’s aim is to engage the viewer by creating evocative spaces that invite a reaction, a thought, or the taking of a stand, leaving the sometimes anonymous artist in the background.

Jenny Holzer
Thing Indescribable
March 22–September 9, 2019

Guggenheim Bilbao
Abandoibarra et.2
48001 Bilbao
Spain

jennyholzer.guggenheim-bilbao.eus

Curated by: Petra Joos, curator of the Guggenheim Museum Bilbao

Image: Jenny Holzer, Survival, 1989

28
Mar

Italian Pavilion at the Venice Biennale. Neither Nor: The challenge to the Labyrinth

Neither Nor: The challenge to the Labyrinth (Né altra Né questa: La sfida al Labirinto) is the title of the exhibition for the Italian Pavilion at the 58th Venice Biennale, curated by Milovan Farronato and featuring work by Enrico David (Ancona, 1966), Chiara Fumai (Rome, 1978–Bari, 2017) and Liliana Moro (Milan, 1961).

The subtitle of the project alludes to La sfida al labirinto (The Challenge to the Labyrinth), a seminal essay written by Italo Calvino in 1962 that has been the inspiration for Neither Nor. In this text the author proposed a cultural work open to all possible languages and that felt itself co-responsible in the construction of a world which, having lost its traditional points of reference, no longer asked to be simply represented. To visualize the intricate forms of contemporary reality, Calvino turned to the vivid metaphor of the labyrinth: an apparent maze of lines and tendencies that is in reality constructed on the basis of strict rules.

Interpreting this line of thought in an artistic context, Neither Nor—whose Italian title, Né altra Né questa, already uses the rhetorical figure of the anastrophe to disorientate—gives agency to a project of ‘challenge to the labyrinth’ that takes Calvino’s lesson on board by staging an exhibition whose layout is not linear and cannot be reduced to a set of tidy and predictable trajectories. Many generous journeys and interpretations are offered to the public, whom the exhibition entrusts with the chance to take on an active role in determining the route they will take and thereby find themselves confronted with the result of their own choices, accepting doubt and uncertainty as inescapable parts of understanding.

The exhibition is accompanied by a Public Program including talks by Enrico David, Liliana Moro and Prof. Marco Pasi, as well as the presentation of Bustrofedico (“Boustrophedon”), a new experimental short film by Italian filmmaker Anna Franceschini documenting the exhibition, produced by In Between Art Film and Gluck50, to be premiered in Venice at the end of the show. The Educational Program, promoted by the Directorate-General for Contemporary Art and Architecture and Urban Peripheries (DGAAP) of the Ministry for the Cultural Heritage and Activities, invites participants to collectively study and perform a choreography conceived by Christodoulos Panayiotou (Limassol, Cyprus, 1978), inspired by the ‘Dance of the Cranes’ which, according to the ancient Greek poet Callimachus, celebrated Theseus’s escape from the Labyrinth of Knossos. The Programs are curated by Milovan Farronato, Stella Bottai and Lavinia Filippi, and will be held in the spaces of the Italian Pavilion.

Neither Nor: The challenge to the Labyrinth will be accompanied by a bilingual catalogue published by Humboldt Books, with essays by Stella Bottai, Italo Calvino, Enrico David, Milovan Farronato, Lavinia Filippi, Chiara Fumai, Liliana Moro, Christodoulos Panayiotou, Emanuele Trevi.

The Italian Pavilion is realized also with the support of Gucci and FPT Industrial, main sponsors of the exhibition, and the contribution of the main donor Nicoletta Fiorucci Russo. Special thanks also go to all the other donors for their fundamental contributions to the project; we are grateful as well to the technical sponsors Gemmo, C&C-Milano and Select Aperitivo.

Neither Nor: The challenge to the Labyrinth
Italian Pavilion at the Venice Biennale
May 11–November 24, 2019

Italian Pavilion at the Venice Biennale
Arsenale
Venice
Italy

www.neithernor.it

Commissioned by the Ministry for Cultural Heritage and Activities
DGAAP – Directorate-General for Contemporary Art and Architecture Urban Peripheries
Commissioner: Federica Galloni, Director General DGAAP

Curated by Milovan Farronato

source: e-flux

25
Mar

Surrealist Lee Miller

Preferisco fare una foto, che essere una foto”.
Lee Miller

Palazzo Pallavicini e ONO arte contemporanea sono lieti di presentare la mostra “Surrealist Lee Miller”, la prima italiana della retrospettiva dedicata ad una delle fotografe più importanti del Novecento. Lanciata da Condé Nast, sulla copertina di Vogue nel 1927, Lee Miller fin da subito diventa una delle modelle più apprezzate e richieste dalle riviste di moda. Molti i fotografi che la ritraggono – Edward Steichen, George Hoyningen-Huene o Arnold Genthe – e innumerevoli i servizi fotografici di cui è stata protagonista, fino a quando – all’incirca due anni più tardi – la Miller non decide di passare dall’altra parte dell’obiettivo. Donna caparbia e intraprendente, rimane colpita profondamente dalle immagini del fotografo più importante dell’epoca, Man Ray, che riesce ad incontrare diventandone modella e musa ispiratrice. Ma, cosa più importante, instaura con lui un duraturo sodalizio artistico e professionale che assieme li porterà a sviluppare la tecnica della solarizzazione. Amica di Picasso, di Ernst, Cocteau, Mirò e di tutta la cerchia dei surrealisti, Miller in questi anni apre a Parigi il suo primo studio diventando nota come ritrattista e fotografa di moda, anche se il nucleo più importante di opere in questo periodo è certamente rappresentato dalle immagini surrealiste, molte delle quali erroneamente attribuite a Man Ray. A questo corpus appartengono le celebri Nude bent forward, Condom e Tanja Ramm under a bell jar, opere presenti in mostra, accanto ad altri celebri scatti che mostrano appieno come il percorso artistico di Lee Miller sia stato, non solo autonomo, ma tecnicamente maturo e concettualmente sofisticato. Dopo questa prima parentesi formativa, nel 1932 Miller decide di tornare a New York per aprire un nuovo studio fotografico che, nonostante il successo, chiude due anni più tardi quando per seguire il marito – il ricco uomo d’affari egiziano Aziz Eloui Bey – si trasferisce al Cairo.  Intraprende lunghi viaggi nel deserto e fotografa villaggi e rovine, iniziando a confrontarsi con la fotografia di reportage, un genere che Lee Miller porta avanti anche negli anni successivi quando, insieme a Roland Penrose – l’artista surrealista che sarebbe diventato il suo secondo marito – viaggia sia nel sud che nell’est europeo. Poco prima dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale, nel 1939, lascia l’Egitto per trasferirsi a Londra, ed ignorando gli ordini dall’ambasciata americana di tornare in patria, inizia a lavorare come fotografa freelance per Vogue. Documenta gli incessanti bombardamenti su Londra ma il suo contributo più importante arriverà nel 1944 quando è corrispondente accreditata al seguito delle truppe americane e collaboratrice del fotografo David E. Scherman per le riviste “Life” e “Time”.  Fu lei l’unica fotografa donna a seguire gli alleati durante il D-Day, a documentare le attività al fronte a durante la liberazione.
Le sue fotografie ci testimoniano in modo vivido e mai didascalico l’assedio di St. Malo, la Liberazione di Parigi, i combattimenti in Lussemburgo e in Alsazia e, inoltre, la liberazione dei campi di concentramento di Dachau e Buchenwald. È proprio in questi giorni febbrili che viene fatta la scoperta degli appartamenti di Hitler a Monaco di Baviera ed è qui che scatta quella che probabilmente è la sua fotografia più celebre: l’autoritratto nella vasca da bagno del Führer. Dopo la guerra Lee Miller ha continuato a scattare per Vogue per altri due anni, occupandosi di moda e celebrità, ma lo stress post traumatico riportato in seguito alla permanenza al fronte contribuì al suo lento ritirarsi dalla scena artistica, anche se il suo apporto alle biografie scritte da Penrose su Picasso, Mirò, Man Ray e Tapies fu fondamentale, sia come apparato fotografico che aneddotico.
La mostra (14 marzo – 9 giugno 2019), organizzata da Palazzo Pallavicini e curata da ONO arte contemporanea, si compone di 101 fotografie che ripercorrono l’intera carriera artistica della fotografa, attraverso quelli che sono i suoi scatti più famosi ed iconici, compresa la sessione realizzata negli appartamenti di Hitler, raramente esposte anche a livello internazionale e mai diffuse a mezzo stampa per l’uso improprio fattone negli anni da gruppi neonazisti.Per ulteriori informazioni sull’archivio Lee Miller www.leemiller.co.uk

Palazzo Pallavicini
via San Felice, 24 – Bologna

Surrealist Lee Miller
dal 14 marzo al 9 giugno 2019

ORARI: Da giovedì a domenica: 11-20 (ore 19 ultimo ingresso). Chiuso il lunedì, martedì e mercoledì. Aperture straordinarie: 22 e 25 aprile 11-20 (ore 19 ultimo ingresso); 1 maggio 11-20 (ore 19 ultimo ingresso); 2 giugno 11-20 (ore 19 ultimo ingresso)

ENTI PROMOTORI: Palazzo Pallavicini e ONO arte contemporanea

INFO: +39 3313471504 – info@palazzopallavicini.com

Image: Charlie Chaplin by Lee Miller © Lee Miller Archives England 2018. All Rights Reserved

 

20
Mar

Miart 2019

A Milano dal 5 al 7 aprile 2019 torna miart, la fiera internazionale d’arte moderna e contemporanea organizzata da Fiera Milano e diretta per il terzo anno da Alessandro Rabottini. 186 gallerie provenienti da 19 paesi esporranno opere di maestri moderni, artisti contemporanei affermati ed emergenti e designer storicizzati e sperimentali. In occasione di miart 2019, fiera internazionale d’arte moderna e contemporanea organizzata da Fiera Milano, una nuova edizione della Milano Art Week coinvolgerà visitatori, collezionisti e professionisti.

Concepita da miart in collaborazione con il Comune di Milano, la Milano Art Week conferma lo status di capitale culturale e creativa di Milano mettendo in scena una gamma incredibilmente diversificata di posizioni artistiche – sia storiche sia contemporanee – attraverso nuove commissioni artistiche, mostre monografiche e collettive tematiche. A partire dal 1 aprile, ogni giornata della Milano Art Week ospiterà opening e visite straordinarie presso mostre e progetti artistici tra cui, fra gli altri:

– Sheela Gowda, a cura di Nuria Enguita e Lucia Aspesi; Giorgio Andreotta Calò, a cura di Roberta Tenconi presso Pirelli HangarBicocca
– Lizzie Fitch / Ryan Trecartin presso Fondazione Prada
– Ibrahim Mahama alla Fondazione Nicola Trussardi, a cura di Massimiliano Gioni
– Anna Maria Maiolino presso PAC – Padiglione d’Arte Contemporanea, a cura di Diego Sileo
– XXII Triennale di Milano. Broken Nature: Design Takes on Human Survival a cura di Paola Antonelli presso La Triennale di Milano
– Lygia Pape alla Fondazione Carriero, a cura di Francesco Stocchi
The Unexpected Subject. 1978 Art and Feminism in Italy presso FM – Centro per l’Arte Contemporanea, a cura di Marco Scotini e Raffaella Perna
– Renata Boero, a cura di Anna Daneri e Iolanda Ratti; Marinella Pirelli, a cura di Lucia Aspesi e Iolanda Ratti al Museo del Novecento
– Antonello da Messina, a cura di Giovanni Carlo Federico Villa; Jean-Auguste-Dominique Ingres, a cura di Florence Viguier a Palazzo Reale
– Carlos Amorales alla Fondazione Adolfo Pini, a cura di Gabi Scardi
– Sophia Al-Maria presso Fondazione Arnaldo Pomodoro, a cura di Cloé Perrone
– Jamie Diamond presso Osservatorio Fondazione Prada, a cura di Melissa Harris
– Morbelli (1853-1919) alla GAM – Galleria d’Arte Moderna, a cura di Paola Zatti
Hyper Visuality. Film & Video Art from the Wemhöner Collection a Palazzo Dugnani e curata da Philipp Bollmann
– Hans Josephsohn presso ICA, a cura di Alberto Salvadori
– Anj Smith presso il Museo Poldi Pezzoli
The Last Supper After Leonardo alla Fondazione Stelline e curata da Demetrio Paparoni

La Milano Art Week porterà in scena anche la performance attraverso alcune prestigiose commissioni, fra cui mk e Linda Fregni Nagler presso Triennale Teatro dell’Arte e Anna Maria Maiolino al PAC – Padiglione d’Arte Contemporanea.

La Milano Art Week 2019 culminerà con la Art Night di sabato 6 aprile – una serata di inaugurazioni e performance diffuse nei numerosi spazi non profit e di sperimentazione della città – e con l’ apertura straordinaria delle gallerie milanesi prevista per domenica 7.

miart vi aspetta a Milano dal 5 al 7 aprile 2019 (con anteprima VIP il 4 aprile)!

Main Partner : Intesa Sanpaolo – Intesa Sanpaolo Private Banking
Partner : Herno, Fidenza Village, Snaporazverein, LCA Studio Legale
miartalks powered by : In Between Art Film
Sponsor : Ruinart, Flos, Nava press
Media Partner : Elle Decor
International Media Partner: The New York Times
Official Guide : My Art Guides
Online exclusively on : Artsy

La campagna visiva Horizon è un racconto per immagini dal sapore cinematografico che celebra il tema dell’arte come luogo di esplorazione, scoperta e mutamento.

Horizon è stata realizzata da:
fotografo Jonathan Frantini
Art Direction di Francesco Valtolina per Mousse
Assistente Art Direction: Anita Poltronieri (Mousse)
Assistente fotografo: Francesca Gardini, Giacomo Lepori
Casting: Semina Casting
Modelli: Amelie, Lorenzo, Clara, Federico, Alessandro, Mohamed, Sara, Angela, Martina, Alessandro, Nicolo’, Davide, Loreley, Mehdi
11
Mar

Helen Frankenthaler. Sea Change: A Decade of Paintings, 1974–1983

Disegna sull’intera superficie ed al suo interno, colorane alcune parti e trasformala in una specie di mare.
—Helen Frankenthaler

Gagosian è lieta di presentare a Roma una mostra di dipinti di Helen Frankenthaler, in concomitanza con l’esposizione dell’artista a Palazzo Grimani durante la Biennale di Venezia 2019.

Frankenthaler è da tempo riconosciuta come una delle più grandi artiste americane del Ventesimo secolo. Figura di punta della seconda generazione di pittori astratti americani del Dopoguerra, è famosa per il suo ruolo fondamentale nella transizione dall’Espressionismo Astratto al movimento Color Field. Con la sua invenzione della tecnica soak-stain, ha ampliato le possibilità della pittura astratta, rifacendosi a volte anche al figurativo e al paesaggio in modo unico. Nell’estate del 1974 Frankenthaler affitta una casa a Shippan Point vicino a Stamford, nel Connecticut, affacciata sulle acque del Long Island Sound, segnando l’inizio di un importante periodo di cambiamento nel suo lavoro. La mostra, intitolata Sea Change, comprende dodici tele dipinte tra il 1974 e il 1983 fortemente influenzate dagli ampi panorami e dal movimento delle maree di questi nuovi paesaggi. Una delle prime tele di quegli anni, Ocean Drive West #1 (1974), si riferisce esplicitamente all’oceano con le sue bande orizzontali fluttuanti, che sembrano arretrare di fronte a una distesa blu trasparente. In Jupiter (1976) e Reflection (1977), le pennellate sono dense e verticali, e sembrano essere sul punto di dissolversi. In entrambi questi dipinti, i colori caldi della terra sono in contrasto con il blu-verde acqueo, evocando l’incontro tra terra e acqua. Le tele di grande formato Tunis II e Dream Walk Red (entrambe del 1978), esprimono un forte senso di calore, con densi strati di rosso scuro, rosa, cremisi, terra di Siena e rosso scarlatto. In questo periodo Frankenthaler lavora sul concetto di “fare di più per ogni immagine,” per creare opere allo stesso tempo più complesse e complete. In Feather (1979), Omen (1980) e Shippan Point: Twilight (1980) i colori si mescolano, si sovrappongono e si ripiegano l’uno nell’altro producendo sfumature morbide ed originali. I tocchi, i segni e i tratti di pigmento giallo di Omen preannunciano le successive tele orizzontali di dimensioni ambiziose: densi grumi e tracce di colore scuro su un fondo più chiaro in Sacrifice Decision (1981), o di colore chiaro su un fondo più scuro in Eastern Light (1982). Con Tumbleweed (1982), Frankenthaler inquadra questo approccio pittorico su un campo verde luminoso e compatto, allontanandolo dal riferimento ai valori atmosferici – di aria e acqua – per portarlo su un terreno più solido, come espresso dal titolo e dalla superficie verdeggiante. La tela più recente in mostra, Silver Express (1983), testimonia il momento in cui Frankenthaler inizia a non pensare più all’acqua e immagina invece di spostarsi su una superficie piatta e resistente, in questo caso ai margini di uno spazio più urbano come la piazza. Il solido monocromo rosso è al contempo l’opposto e il risultato del processo iniziato con il fluido monocromo blu di Ocean Drive West #1. Una “specie di mare” torna sulla terraferma. Helen Frankenthaler: Sea Change, quinta mostra di Frankenthaler presentata alla Gagosian dal 2013, è curata da John Elderfield, curatore senior presso Gagosian. La mostra sarà accompagnata da un catalogo illustrato con un saggio di Elderfield. Pittura/Panorama: Paintings by Helen Frankenthaler, 1952–1992 aprirà a Palazzo Grimani, Venezia, il 7 maggio e sarà visitabile fino al 17 novembre.

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21
Feb

Dan Flavin

La Galleria Cardi di Milano è lieta di presentare una mostra personale del leggendario artista minimalista americano Dan Flavin. La mostra è organizzata in collaborazione con l’Estate di Dan Flavin ed è accompagnata da un catalogo illustrato che include un saggio dello stimato critico d’arte italiano Germano Celant.

L’artista americano Dan Flavin (1933-1996) è riconosciuto a livello internazionale per le sue installazioni e opere scultoree realizzate esclusivamente con lampade fluorescenti disponibili in commercio. La mostra alla Cardi Gallery di Milano presenterà quattordici opere luminose dalla fine degli anni ’60 agli anni ’90 che mostrano l’evoluzione di oltre quattro decenni delle ricerche dell’artista sulle nozioni di colore, luce e spazio scultoreo. Nell’estate del 1961, mentre lavorava come guardia presso l’American Museum of Natural History di New York, Flavin iniziò a realizzare schizzi per sculture che incorporavano luci elettriche. Più tardi quell’anno, tradusse i suoi schizzi in assemblaggi, che chiamò “icone”, che accostavano le luci a costruzioni di Masonite dipinte di un colore solo. Nel 1963, rimosse completamente il supporto rettangolare e iniziò a lavorare con le sue lampade fluorescenti. Nel 1968, Flavin espanse le sue sculture ad ambienti grandi come una camera e riempì un’intera galleria di luce ultravioletta a Documenta 4, Kassel (1968). Flavin negava sempre con enfasi che le sue installazioni scultoree di luce avessero alcun tipo di dimensione trascendente, simbolica o sublime, affermando: “È quello che è e non è nient’altro”. Sosteneva che le sue opere fossero semplicemente luce fluorescente che rispondeva a uno specifico ambiente architettonico. Usando la luce come mezzo, Flavin è stato in grado di ridefinire il modo in cui percepiamo lo spazio pittorico e scultoreo.

Daniel Flavin è nato a Giamaica, New York, nel 1933. Ha studiato in seminario per un breve periodo prima di arruolarsi nell’Aeronautica degli Stati Uniti. Durante il servizio militare nel 1954-55, Flavin ha studiato arte attraverso il Programma di estensione dell’Università del Maryland in Corea. Al suo ritorno a New York nel 1956, ha brevemente frequentato la Scuola di Belle Arti Hans Hofmann e ha studiato storia dell’arte presso la New School for Social Research. Nel 1959, ha frequentato corsi di disegno e pittura presso la Columbia University; quell’anno, iniziò a creare assemblaggi e collage oltre che dipinti che indicavano il suo primo interesse per l’espressionismo astratto. Nel 1961, ha presentato la sua prima mostra personale di collage e acquerelli alla Judson Gallery di New York. Dopo questa mostra l’artista inizia a produrre quello che diventerà un corpo di lavoro singolarmente coerente e prodigioso che ha utilizzato esclusivamente lampade fluorescenti disponibili in commercio per creare installazioni di luce e colore con composizioni sistematiche. Le principali retrospettive del lavoro di Flavin sono state organizzate dalla National Gallery of Canada di Ottawa (1969), St. Louis Art Museum (1973), Kunsthalle Basel (1975) e Museum of Contemporary Art di Los Angeles (1989). Ha anche eseguito molte commissioni per lavori pubblici, tra cui l’illuminazione di numerosi binari alla Grand Central Station di New York nel 1976. Flavin è morto il 29 novembre 1996 a Riverhead, New York. Sia il Deutsche Guggenheim di Berlino nel 1999 che la Dia Foundation for the Arts nel 2004 hanno montato importanti retrospettive postume del lavoro dell’artista. Nel 1996, su invito del prete italiano Giulio Greco, Dan Flavin ha creato un progetto site-specific come elemento centrale per il restauro e il rinnovamento della chiesa di Santa Maria Annunciata in Chiesa Rossa di Milano, progettata da Giovanni Muzio negli anni ’30.

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20
Feb

INTROSPECTIVE WINDOW

“Il potere creativo della mente si sveglia vivace mentre forma il finito dall’indefinito”
Goethe – Howards Ehrengedächtnis

L’arte è la finestra introspettiva sulla nostra interiorità.
Da questa immagine visiva e mentale nasce l’idea della mostra che inaugura sabato 23 febbraio alla Galleria Emmeotto a Palazzo Taverna.
Una finestra da cui ognuno di noi può e deve guardare per perdersi e ritrovarsi, per comprendere non il significato a tutti i costi, ma per conoscere ed entrare in sinergia con una sensibilità altra, per compiere un percorso a ritroso fino all’essenza di un’opera d’arte, mezzo che amplifica il sentire nostro e degli artisti, i quali restituiscono alla realtà più di quello che prendono da essa. Una finestra come luogo di frontiera e, allo stesso tempo, di contatto e fusione tra verità e immaginazione, tra passato e futuro, tra mente e corpo, dove le dinamiche emozionali personali esplorano e cercano un riscontro nella rappresentazione, in un continuo movimento interno che non si ferma mai. Il raccontarsi degli artisti è il viaggio emotivo tra ricerca interiore ed evoluzione materica, all’interno del sé, il percorso di nascita, scoperta, crescita, decomposizione e ri-creazione sotto altre forme, una palingenesi che scrive e riscrive un diario personale, elemento dopo elemento, pagina dopo pagina e si arricchisce di esperienze come una pièce teatrale si infittisce di dialoghi.
Ogni artista in mostra vive il processo creativo in maniera totalizzante, una sorta di catarsi necessaria, che scopre e rivela, con la singolarità del modus operandi, una prospettiva differente, che ci permette di guardare al di là dell’apparenza e di instaurare quell’empatia dalle molteplici sfaccettature che solo la nostra interiorità può generare, ancora di più se ci troviamo ad interagire con gli stimoli dettati da diverse espressioni e linguaggi.
Renzo Bellanca, attraverso una selezione di opere della serie Satellite Map, realizzate con tecnica mista su carta e tela nel 2018, ci accompagna in un percorso stratigrafico tra mappe e paesaggi, ma senza corrispondenze precise. Il sovrapporsi di elementi fisici, interiori e mentali diventa un tragitto di contaminazione tra presente e memoria, in una dimensione astratta e macrocosmica, ma nonostante questo, riconoscibile e intima, che va a occupare gli spazi tra la realtà e l’inconscio, l’immaginazione e il pensiero razionale. Il trattamento e l’interpretazione del colore diventano la bussola del cammino che si dispiega tra confini, limiti, insenature e isole fuori e dentro di noi. Una carta geografica che, ogni volta, si arricchisce di nuovi segni e simboli.
Micaela Lattanzio parte da un’indagine fotografica, rielabora l’immagine da lei realizzata e la rende elemento “pittorico”. Da un minuzioso e attento lavoro che si basa sulla ripetizione del multiplo circolare, arriva alla creazione di un insieme, una nuova prospettiva composta da architetture complesse che avvolgono lo spettatore in suggestioni emotive. Che siano elementi presenti in Natura, come l’inedito dittico Nucleo (2018) o corpi, in essi è proposta una visione introspettiva, uno scenario surreale “fragmentato”, un mosaico che crea una terza dimensione materica e narrativa che va oltre l’estetica e fa riflettere sull’essenza e sull’esplorazione dell’uomo e del suo sentire le forme naturali da cui trae benessere psicofisico .
Nei lavori inediti realizzati per la mostra da Barbara Salvucci, il segno ripetuto e continuo della produzione precedente si fa più intenso, fitto, totale. Il tratto mandalico, in un gioco continuo di pieni e di vuoti, da una meditata e controllata concentrazione dà vita ad una forte irrazionalità emozionale come in un sogno o in una visione onirica, dove tutto sembra ignoto, ma riconoscibile. Il movimento coinvolge, inevitabilmente, chi guarda, a volte in vortici astratti, altre in ondulazioni mantriche fino a spostarlo in uno spazio fisico e interno differente, in particolar modo quando la luce viene meno e l’opera al buio diventa altro al di fuori di sé e di noi, e tutto cambia, la percezione, la vibrazione del corpo e della cognizione.
Bankeri utilizza come medium la carta e la tecnica del collage, in binomio con un’abile capacità di mixare le scelte cromatiche, ed è in questo processo di rigenerazione materica che avviene la trasformazione del messaggio personale. La spontanea meticolosità del gesto artistico ripetuto esalta la potenza visiva. Lo smembramento e il riassemblaggio di un’immagine precedente, un pensiero, un’idea o uno stato d’animo ci permettono di librare in un’inedita cosmogonia di stelle. Seppur la trattazione dello spazio sembra dirompere in maniera casuale e caotica, in realtà, tutto è dettato da una continuità, da una regia dalla voce distinta che va oltre la bidimensionalità della tela, in equilibrio perfetto tra inquietudine e la sensazione inebriante che stia per succedere qualcosa di inaspettato, soprattutto dopo che le opere sono state al buio, senza la luce diretta, e assorbono un’energia diversa che rivela una nuova lettura.
L’apice dell’interazione, nel percorso espositivo della mostra, avviene con lo Star Gate di Penelope, nome d’arte di Chiara Cocchi, una “finestra” di stelle che mette in comunicazione la Natura, la mente, il corpo, ma anche scienza, filosofia e sociologia. Realizzata con vetri, specchi e LED, la sua opera, crea un passaggio verso un’altra dimensione. Partendo da una rappresentazione scientifica dell’Universo, in questo caso una mappa stellare, supportata da un’accurata ricerca non solo tecnico-estetica, ma anche culturale, si arriva ad una comunicazione artistica intensa ed emozionale. Le sue esperienze e storie sono interiorizzate e raccontate attraverso lo spazio-tempo della sua sensibilità in uno scambio continuo tra macro e microcosmo, ed ognuno di noi può affacciarsi al “portale”, infinito” come lo definisce l’artista e guardar(si)e dentro.

NeI processo di creazione, il trasporto interiore plasma la materia, trattata dagli artisti con una sapienza manuale rintracciabile distintamente nelle opere realizzate. Tutti ne affrontano la scomposizione per poi darle nuova vita e significato e dialogano con il nostro sguardo più intimo. Il racconto metaforico scopre l’invisibile per trovare, mediante il gesto, una nuova scala diatonica tra sentimenti e pensieri, realtà e rappresentazione, andata e ritorno. Ed ecco che, dalla finestra introspettiva si diffonde un vortice di affinità elettive che si instaura tra noi, gli artisti, le opere, le vite…quello che vediamo, quello che sentiamo.

INTROSPECTIVE WINDOW
Bankeri | Renzo Bellanca
Penelope Chiara Cocchi
Micaela Lattanzio | Barbara Salvucci
A cura di Valentina Luzi

Palazzo Taverna – Via di Monte Giordano, 36 – 00186 Roma
Opening Sabato 23 Febbraio 2019 ore 18.30
25 Febbraio – 31 Maggio 2019