Category: video arte

18
Dic

Bruno Munari. I colori della luce

La Fondazione Donnaregina per le arti contemporanee, in collaborazione con la Fondazione Plart, nell’ambito dell’edizione 2018 di Progetto XXI, presenta la mostra BRUNO MUNARI. I colori della luce, a cura di Miroslava Hajek e Marcello Francolini, realizzata presso il Museo Plart (Via Giuseppe Martucci 48, Napoli).

Progetto XXI è la piattaforma attraverso la quale la Fondazione Donnaregina per le arti contemporanee si propone, dal 2012, di esplorare la produzione artistica emergente, nella sua realizzazione teorico-pratica, e di analizzare l’eredità delle pratiche artistiche più seminali degli ultimi decenni, nella loro esemplare proposta metodologica. Il progetto intende così contribuire alla produzione e alla diffusione di narrazioni e storiografie alternative del contemporaneo e alla definizione di un sistema regionale delle arti contemporanee, basato sulla collaborazione e l’interscambio fra istituzioni pubbliche e private operanti in Regione Campania. In particolare, la collaborazione con Fondazione Plart ha permesso di ampliare i pubblici di riferimento e di approfondire nuove linee di ricerca, esplorando le relazioni in costante aggiornamento fra arte, architettura e design con l’obiettivo di creare le premesse per progetti museali in grado di abbracciare l’ampio spettro di queste relazioni. Oltre ad avviare, con una pluralità di soggetti di eccellenza, una riflessione sistematica sulle tematiche del restauro nelle arti contemporanee e a supportare, quindi, l’affermazione delle nuove professionalità ad esse connesse.

Le proiezioni dirette e quelle polarizzate sono presentate per la prima volta nel 1953 a Milano nello studio di architettura B24, che allora era uno spazio per le esposizioni del MAC-Movimento per l’arte concreta, e poi nel 1955 al MoMA di New York con il titolo di Munari’s Slides, nell’ambito di una mostra personale. Successivamente saranno presentate nel 1955 alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma ed infine a Tokyo, Stoccolma, Anversa, Zurigo, Amsterdam.

Questa parte peculiare della complessa e variegata produzione artistica di Bruno Munari sarà per la prima volta presentata a Napoli, a seguito della ricerca condotta dalla Fondazione Plart, che ha svolto un accurato lavoro scientifico di digitalizzazione dei vetrini che saranno proiettati in specifici ambienti della mostra. Trattandosi di opere risalenti a oltre cinquant’anni fa (Proiezioni Dirette, 1950; Proiezioni Polarizzate, 1953), il lavoro di digitalizzazione si è reso necessario anche per la conservazione di queste opere, vista la loro precaria costituzione materiale. Inoltre, la digitalizzazione consente di portare alla conoscenza del pubblico un particolare aspetto del lavoro di Munari rimasto sconosciuto per molto tempo, colmando, altresì, i vuoti e le mancanze presenti nella ricostruzione non solo di alcuni aspetti della sua ricerca ma più in generale della storia dell’arte contemporanea, soprattutto nel rapporto arte-tecnologia. Infatti, il lavoro di Munari che sarà presentato in mostra ha inciso in modo determinante sui successivi sviluppi dell’Arte cinetica in Francia e dell’Arte programmata in Italia. In più, gli ambienti realizzati per mezzo di proiezione diretta o di proiezione polarizzata hanno anticipato in modo assolutamente seminale soluzioni proprie delle video-installazioni multimediali e, di conseguenza, delle più recenti metodologie e linee di ricerca dell’arte interattiva, come il Mapping e la Kinect-Art.

Il percorso espositivo del Plart è arricchito dalla presenza di alcune opere esemplificative di quella ricerca che condurrà Munari, già a partire dagli anni Trenta e Quaranta, ad evolvere in senso ambientale l’opera: Macchina Inutile (1934), Tavola Tattile (1938), Macchina Aritmica (1947), sono opere che dichiarano una volontà di uscita dalla bidimensionalità, che raggiungerà il suo culmine nell’ideazione di Concavo-Convesso (1947). Punto di luce, un dipinto olio su masonite del 1942 rivela in nuce le ricerche formali a cui Munari arriverà proprio con le proiezioni dirette e polarizzate, nelle quali, tra l’altro, è presente una ricerca di sensibilizzazione, in senso artistico e visuale, delle materie plastiche colorate che sono usate per trasparenza. Nelle Proiezioni Dirette, infatti, la plastica è impiegata a seconda del suo colore, per essere investita dalla luce. mentre nelle Proiezioni Polarizzate la plastica è il mezzo per estrarre il colore dalla luce. Munari fonde così, materia e luce producendo opere il cui messaggio finale oltrepassa la fisicità dell’opera. La presenza in mostra di opere come Flexy, multipli realizzati in plastica a partire dagli anni Sessanta, e Fossile del 2000 (1959), in cui componenti elettroniche e materiali metallici sono immersi in pezzi di plexiglass di forma irregolare e bruciato, dichiarano il continuo interesse di Munari nei confronti delle materie plastiche che diventano, con il tempo, elementi fondamentali nella comunicazione visiva in quanto determinano effetti cromatici variabili.

Nei mesi successivi all’inaugurazione sarà pubblicato il catalogo della mostra con prestigiosi interventi che inquadreranno criticamente gli aspetti principali ed essenziali dell’esposizione.

Bruno Munari (Milano, 1907-1998), designer, scrittore e uno dei massimi protagonisti dell’arte programmata e cinetica, è autore di una ricerca multiforme che, al di là di ogni categorizzazione, definisce la figura di un intellettuale che ha interpretato le sfide estetiche del Novecento italiano, esplorando la relazione fra le discipline e l’interscambio fra il concetto di opera e quello di prodotto, fra forma e funzione.La mostra presentata al Plart analizza un aspetto in particolare e uno specifico corpo di lavori di Munari, le Proiezioni a luce fissa e le Proiezioni a luce polarizzata realizzate negli anni Cinquanta del secolo scorso, con cui porta a compimento la sua ricerca volta a conquistare una nuova spazialità oltre la realtà bidimensionale dell’opera. L’artista, esplorando la nozione di dipingere con la luce, arriva dapprima, nel 1950, al processo di smaterializzazione dell’arte attraverso l’uso di proiezioni di diapositive intitolate Proiezioni Dirette: composizioni con materiali organici, pellicole trasparenti e colorate in plastica, pittura, retini, fili di cotone fermati fra due vetrini. Questi piccoli collage erano proiettati al chiuso e all’aperto, sulle facciate di edifici, dando una sensazione di monumentalità e conquista di un’inedita spazialità, tridimensionale e pervasiva, dell’opera. Nasce così la “pittura proiettata” di Munari che, progredendo nelle sue indagini, giunge al suo culmine nel 1953, quando scopre e mette a punto per la prima volta il modo in cui scomporre lo spettro di luce attraverso una lente Polaroid. Utilizzando, infatti, un filtro polarizzato movibile applicato a un proiettore per diapositive, Munari ottiene le Proiezioni Polarizzate con cui compie l’utopia futurista di una pittura dinamica e in continuo divenire.

La mostra è realizzata e finanziata integralmente con fondi POC 2014-20 (PROGRAMMA OPERATIVO COMPLEMENTARE) Regione Campania

TITOLO DELLA MOSTRA: BRUNO MUNARI. I colori della luce

PROMOSSO DA: Fondazione Donnaregina in partnership con Fondazione Plart
A CURA DI: Miroslava Hajek, Marcello Francolini
SEDE ESPOSITIVA: Fondazione Plart, via Giuseppe Martucci 48, Napoli, Italia
TEL E INFO:081-19565703, info@plart.it
COSTI INGRESSO: Gratuito per la mostra
Per informazioni consultare i siti www.fondazioneplart.ite www.madrenapoli.it
DATE DI APERTURA: 29 novembre 2018 – 20 marzo 2019
ORARI DI APERTURA: da martedì a venerdì ore 10.00 – 13.00 / ore 15.00 – 18.00
Sabato ore 10.00 – 13.00

Ufficio stampa Fondazione Plart
Culturalia di Norma Waltmann
051 6569105, 392 2527126
info@culturaliart.com

Ufficio stampa Fondazione Donnaregina/ Museo Madre
Enrico Deuringer
Sarah Manocchio
ufficiostampa@madrenapoli.it

Immagine: BRUNO MUNARI Vetrini a luce polarizzata, 1953 Materiali vari Courtesy Miroslava Hajek

13
Dic

Anthony McCall. Split Second

Sean Kelly is delighted to announce Split Second, Anthony McCall’s sixth solo exhibition with the gallery. Occupying the entire space, the exhibition features two new ‘solid-light’ installations, McCall’s seminal horizontal work Doubling Back, 2003, and a curated selection of black and white photographs, a number of which will be exhibited in the US for the first time. There will be an opening reception on Thursday, December 13, 6-8pm. The artist will be present. Anthony McCall is widely recognized for his ‘solid-light’ installations, a series he began in 1973 with the ground-breaking Line Describing a Cone, in which a volumetric form composed of projected light slowly evolves in three-dimensional space. In Split Second, McCall further expands the development of this series, creating a dialogue between two new works, Split Second and Split Second (Mirror). Split Second consists of two separate points of light emanating from the top and bottom of the gallery’s back wall. The projections expand to reveal a flat blade and an elliptical cone, which combine to create a complex field of rotating, interpenetrating planes in space. Split Second (Mirror) is a single projection in which the “split” is created by interrupting the throw of light with a wall-sized mirror. The plane of light is reflected back onto itself, creating a shifting volumetric cone, which exists seamlessly both in real space and as a reflected object.  Doubling Back, 2003, first exhibited in the 2004 Whitney Biennale, is on view in the lower gallery. This work marked McCall’s return to making art following a more than twenty-year hiatus and was the genesis of a new series of films. The piece is distinguished by the direct way in which it uses the architecture of the gallery as a framing device. Consisting of two identical animated wave drawings, the forms intersect as they travel slowly through one another, one moving horizontally, the other vertically to produce curving chambers and pockets of light that unfold against one side of the gallery. Each solid-light installation occupies a space where cinema, sculpture and drawing overlap. The visibility of these works is dependent upon mist produced by a haze machine, inducting the spectator into a three-dimensional field where forms gradually shift and turn over time. The selection of photographs in the front gallery includes images from McCall’s most recent series, Smoke Screen, 2018, which explores moments of intersection between smoke, projected light, and photography. These images relate to McCall’s photographs from the early 1970s, a selection of which will also be on view.

Anthony McCall lives and works in New York City. In the past year, his work has been recognized with solo exhibitions at The Hepworth Wakefield, United Kingdom, and Pioneer Works, Brooklyn, New York. McCall’s solo exhibitions include: Serpentine Gallery, London, United Kingdom; Hamburger Bahnhof, Berlin, Germany; Hangar Bicocca, Milan, Italy; Musée de Rochechouart, Rochechouart, France; the Eye Filmmuseum, Amsterdam, The Netherlands; LAC Lugano Arte e Cultura, Lugano, Switzerland; Les Abattoirs, Toulouse, France; the Nevada Museum of Art, Reno, Nevada; Moderna Museet, Stockholm, Sweden; and Tate Britain, London, United Kingdom. His work has been featured in group exhibitions at the Museum Moderner Kunst, Vienna, Austria; Kunsthaus Zurich, Zürich, Switzerland; Hamburger Bahnhof, Berlin, Germany, the Hirshhorn Museum, Washington, DC; the Museum of Modern Art, New York and the Whitney Museum of American Art, New York.

McCall’s work is represented in numerous collections including, amongst others, Tate, London, United Kingdom; the Museum of Modern Art, New York; the Museum für Moderne Kunst, Frankfurt, Germany; the Hall Art Foundation, New York; the Kramlich Collection, San Francisco, California; the Museu d’Art Contemporani de Barcelona, Spain; Art Gallery of New South Wales, Sydney, Australia; the Baltimore Museum of Art, Baltimore, Maryland; the Hirshhorn Museum and Sculpture Garden, Washington, DC; the Institut d’Art Contemporain, Villeurbanne/Rhône-Alpes, France; The Margulies Collection, Miami, Florida; the Moderna Museet, Stockholm, Sweden; the Musée National d’Art Moderne, Centre Georges Pompidou, Paris, France; the Museum für Moderne Kunst, Frankfurt, Germany; Sammlung Falckenberg Collection of Art, Hamburg, Germany; SFMoMA, San Francisco, California; Thyssen-Bornemisza Art Contemporary, Vienna, Austria; and the Whitney Museum of American Art, New York.

Anthony McCall. Split Second
DECEMBER 14, 2018 – JANUARY 26, 2019
OPENING RECEPTION: Thursday, December 13, 6-8pm

Sean Kelly Gallery
475 Tenth Avenue
New York NY 10018

Image: You and I, Horizontal, 2005. Computer, computer script, video projector, haze machine. One cycle 50 minutes, in six parts (horizontal). Edition of 5 with 1 AP AMC-57

04
Dic

Riccardo Angelini. Pure Graphite

Presso Tomav – Torre di Moresco Centro Arti Visive si inaugura il 15 dicembre 2018 la personale dal titolo Pure Graphite dell’artista Riccardo Angelini.

Pure Graphite. le macchie impresse permangono
Via mistica, ovvero la contemplazione del mondo spirituale, e via razionale, la rappresentazione sintetica quindi dell’universo visibile, hanno da millenni ritratto un binomio dal quale è assai complicato prender le distanze. Scienza e religione son divenute due potenze separate che sublimano l’esistenza e creano differenze e varietà, verso una verità che non è mai per sua natura assoluta. Per la scienza tutto ciò che non viene passato al vaglio dell’osservazione empirica non rappresenta la realtà e questo non è di certo il pensiero che descrive il credo delle religioni. Ne L’Iniziazione, testo del 1904 che accoglie riuniti in un unico volume i saggi pubblicati da Rudolf Steiner, il Pensatore Veggente – così lo chiama Édouard Schuré – afferma che può succedere facilmente, per esempio, che taluno trovi che questa o quella notizia non si accordi con certi risultati scientifici dell’epoca presente; in realtà, non vi è nessun risultato scientifico in contraddizione con l’investigazione spirituale. In ogni uomo, secondo Steiner, esistono facoltà per accedere alla conoscenza dei mondi superiori e egli ne indica le modalità per avvicinarvisi. Un tentativo quindi di rendere tangibile e concreto questo processo di padronanza e consapevolezza di mondi altri che ogni uomo può raggiungere adoperandosi e sviluppando specifiche facoltà senza trascurare alcun dovere nella sua vita ordinaria. Il mondo dei sentimenti, dei pensieri e dei desideri è spesso inafferrabile e crea caos all’interno di ognuno, rimanendo in gran parte incosciente. L’irruzione dell’inconscio nella coscienza è talmente perturbatrice – perché poco adatta alla vita sociale – che la coscienza si ingegna a reprimere quelle manifestazioni verso le quali nutre un sentimento di vergogna […] scrive Aïvanhov; da qui la naturale riflessione su cosa, con grande forza, elimini totalmente questa vergogna e conduca spontaneamente ad una stretta connessione tra spirito e materia, ad uno sposalizio tra i due materialmente testimoniato, se non l’arte? A questi pensatori si lega il lavoro di Riccardo Angelini che ha approfondito la sua ricerca artistica attraverso un’indagine teorica che viene concretizzata nella forma. Dall’interno all’esterno, dalla sensazione alla realizzazione istintiva con l’uso della grafite fissata sul foglio. Ogni opera è un monotipo, è segno unico e irripetibile. Nella fase di produzione lo spazio è metaforicamente inserito nella rappresentazione segnica, influenza energetica di ciò che scaturisce dall’interno dell’Io. La grafite macchia il foglio con più forza in alcuni punti e con leggerezza ma caparbietà su altri, lontana da quella vergogna nata dai limiti sociali. Prevale il senso di libertà dell’artista che agisce con l’intenzione di trasportare lo spettatore in ascesa, all’interno di uno spazio che è più che idoneo a questo tipo di operazione. Nei quattro livelli della torre eptagonale di Moresco, infatti, si ascende dal tangibile all’immateriale, vivendo l’ambiente, raccolto in metratura ma sviluppato verso il cielo stellato. Il percorso spontaneo è la salita, con brevi soste ma senza fermata se non all’apice. Un grande disegno al primo piano, materico e pesante nel tratto, ricorda la forma del planisfero, del mondo empirico che è scienza ed entità fisica; salendo al secondo livello tutto poi si riduce, dalle dimensioni del foglio, al suo peso specifico, fino all’utilizzo minore della grafite e del carboncino. La materia si sta disgregando e trasformando per giungere alla terza altezza in cui tutto è ancora più ristretto e si modifica elevandosi, quasi eterea, fino ad arrivare all’ultimo stadio del viaggio in cui scompare e diviene protagonista la luce, colei che crea l’immagine: i disegni di Riccardo Angelini si mostrano alle pareti attraverso due videoproiettori muovendosi a trecentosessanta gradi, operazione realizzata grazie alla collaborazione con il videoartista Tibo Soyer. Una sorta di automatismo, quello di Riccardo Angelini, che lo porta a rendere la materia campo di proiezione visiva in cui riconoscere forme ed entità che compaiono sul foglio e vivono espandendosi e fluttuando anche fuori dalla superficie della carta che non limita l’immaginazione. Un carattere quasi iniziatico ed alchemico che prende avvio da uno dei più importanti movimenti letterari ed artistici d’avanguardia nato a Parigi – città in cui l’artista vive e lavora – dopo la prima guerra mondiale, il Surrealismo. Nel 1925 Max Ernst scopre la tecnica del frottage, un metodo che esclude qualsiasi scelta mentale cosciente sovrapponendo il foglio di carta a corde, foglie d’albero, tessuti e tanto altro e sfregandovi poi la matita e il carboncino in modo che la carta, per la pressione esercitata, acquisisca lo schema irregolare sottostante. Pur con risultati diversi, Riccardo Angelini adopera la tecnica dello strofinamento che lo avvicina alle intenzioni principali del Surrealismo, automatismo psichico – così come viene definito nel Manifesto del 1924 di André Breton – libero da qualunque controllo di tipo morale, etico e culturale. Nascono così dalla mano di Angelini disegni totalmente spontanei che nel loro manifestarsi si avvicinano anche al lavoro di uno dei più grandi fotografi del Novecento, Mario Giacomelli, nato e vissuto nelle Marche – terra di origine di Angelini – e ai suoi lavori ricchi di contrasti esasperati in cui bianchi e neri sono portati agli estremi. Senza alcuna volontà di resa del paesaggio, Angelini trasla sul foglio gli eccessi del buio e della luce in una costruzione automatica e materica di un’interiorità lasciata libera di rapportarsi con una visione del mondo che è personale ed universale allo stesso tempo, che dal momento in cui fuoriesce si unisce con lo spazio circostante e contemporaneamente ne viene influenzata prima dello svolgersi dell’azione segnica. La materia diviene così il mezzo, e non il fine, per svincolarsi dalla ragione e le macchie impresse permangono all’infinito. Milena Becci

TOMAV- Torre di Moresco Centro Arti Visive – Moresco (FM)
Pure GraphiteRiccardo Angelini
Inaugurazione: sabato 15 dicembre 2018 ore 18
dal 15 dicembre 2018 al  20 gennaio 2019
Testo critico: Milena Becci
Progetto e organizzazione: Andrea Giusti
Installazione video: Tibo Soye

Patrocinio: Comune di Moresco – Assessorato alla Cultura
Comunicazione: M. SimoniOrari: sab-dom ore 18 – 20
Info: tel. 0734 259983/327-2365681;

19
Nov

Rafael Lozano-Hemmer. Pulse

In the Hirshhorn’s largest interactive technology exhibition to date, three major installations from Rafael Lozano-Hemmer’s Pulse series come together for the artist’s DC debut. A Mexican Canadian artist known for straddling the line between art, technology, and design, Lozano-Hemmer fills the Museum’s entire Second Level with immersive environments that use heart-rate sensors to create kinetic and audiovisual experiences from visitors’ own biometric data. Over the course of six months, Pulse will animate the vital signs of hundreds of thousands of participants.

With Lozano-Hemmer’s trademark sensitivities to audience engagement and architectural scale, each installation captures biometric signatures and visualizes them as repetitive sequences of flashing lights, panning soundscapes, rippling waves, and animated fingerprints. These intimate “portraits,” or “snapshots,” of electrical activity are then added to a live archive of prior recordings to create an environment of syncopated rhythms. At a time when biometry is increasingly used for identification and control, this data constitutes a new way of representing both anonymity and community.
The exhibition begins with Pulse Index (2010), which is presented at its largest scale to date. The work records participants’ fingerprints at the same time as it detects their heart rates, displaying data from the last 10,000 users on a scaled grid of massive projections. The second work, Pulse Tank (2008), which premiered at Prospect.1, New Orleans Biennial, has been updated and expanded for this new exhibition. Sensors turn your pulse into ripples on illuminated water tanks, creating ever-changing patterns that are reflected on the gallery walls.
Pulse Room (2006) rounds out the exhibition, featuring hundreds of clear, incandescent light bulbs hanging from the ceiling in even rows, pulsing with the heartbeats of past visitors. You can add your heartbeat to the installation by touching a sensor, which transmits your pulse to the first bulb. Additional heartbeats continue to register on the first bulb, advancing earlier recordings ahead one bulb at a time. The sound of the collected heartbeats join the light display to amplify the physical impact of the installation.
Three short documentaries of Pulse works are also on view, showing the breadth of the series through video footage of various other biometric public-art interventions in Abu Dhabi, Toronto, Hobart, New York, and Urdaibai, Spain (2007–2015).
Curated by Stéphane Aquin, Chief Curator with curatorial assistance from Betsy Johnson, Assistant Curator.
In conjunction with the Hirshhorn exhibition, the Mexican Cultural Institute of the Embassy of Mexico in Washington, D.C. presents the Washington debut of Lozano-Hemmer’s 2011 work, “Voice Array,” on loan from the Hirshhorn’s collection, a gift of the Heather and Tony Podesta Collection in 2014. On view from Oct. 31 through Jan. 31, 2019, the interactive work records participants’ voices and converts them into flashing lights that come together to visually and aurally depict the cumulative contributions of the last 288 visitors. This is the newest project from Hirshhorn in the City, the Museum’s initiative to bring international contemporary art beyond the museum walls and into Washington’s public spaces to connect artists and curators with the city’s creative communities.Continue Reading..

07
Nov

Hito Steyerl. The City of Broken Windows

Hito Steyerl (Monaco, 1966) è una tra gli artisti e teorici più attivi del nostro tempo e le sue riflessioni sulla possibilità di pensiero critico nell’era digitale hanno influenzato il lavoro di numerosi artisti. Ha rappresentato la Germania alla 56. Biennale di Venezia nel 2015. La sua opera si concentra sul ruolo dei media, della tecnologia e della circolazione delle immagini nell’era della globalizzazione. Sconfinando dal cinema all’arte visiva e viceversa, l’artista realizza installazioni in cui la produzione filmica viene associata alla costruzione di ambienti immersivi ed estranianti. In occasione della mostra nella Manica Lunga del Castello di Rivoli, Steyerl crea una nuova installazione multimediale basata sul suono, sul video e sull’intervento architettonico. Steyerl presenta in anteprima The City of Broken Windows (La città delle finestre rotte, 2018), nata dalla sua ricerca attorno alle industrie di AI (artificial intelligence), sulle tecnologie di sorveglianza e attorno al ruolo che i musei d’arte contemporanea svolgono nella società oggi. L’artista indaga il modo in cui l’intelligenza artificiale influenza il nostro ambiente urbano e come possano emergere atti pittorici alternativi in spazi pubblici. Schermi, finestre, cristalli liquidi e non liquidi si legano tutti insieme in questa nuova installazione, la prima realizzata dall’artista dopo Hell Yeah We Fuck Die (Eh già cazzo moriamo, 2016), nella quale Steyerl esaminava la performatività e la precarietà dei robot. Creata per la Biennale di San Paolo, l’installazione Hell Yeah We Fuck Die è stata recentemente esposta a Skulptur Projekte a Münster (2017), è attualmente in mostra al Kunstmuseum di Basilea ed è stata acquisita per le Collezioni del Castello di Rivoli.

The City of Broken Windows ruota attorno a registrazioni alterate di suoni; come in una sinfonia atonale e disturbante, esse documentano il processo d’apprendimento dell’intelligenza artificiale alla quale viene insegnato come riconoscere il rumore di finestre che si rompono, una pratica comune all’industria e alla tecnologia della sicurezza nella nostra società. Il progetto di Steyerl offre un contributo cruciale e una prospettiva intrigante su come l’immaginario contemporaneo digitale plasmi le emozioni e l’esperienza del reale. Fra l’altro, Chris Toepfer, protagonista della nuova opera, occluderà il Castello di Rivoli con un dipinto trompe l’oeil. Le riflessioni di Steyerl sono contenute nei suoi numerosi scritti. Tra i suoi testi più importanti, ha pubblicato In Defense of the Poor Image (In difesa dell’immagine povera) nella rivista online e-flux nel 2009. Recentemente, i suoi scritti sono stati raccolti in volumi come The Wretched of the Screen (I dannati dello schermo), e-flux e Sternberg Press, 2012 e Duty Free Art. Art In the Age of Planetary Civil War, Verso Press, Londra e New York, 2017, pubblicato in Italia con il titolo Duty Free Art. L’arte nell’epoca della guerra civile planetaria, Johan & Levi, 2018.

La mostra sarà accompagnata da una nuova pubblicazione a cura del Castello di Rivoli per i tipi di Skira e da un simposio sull’intelligenza artificiale che si terrà il 12 dicembre 2018 al quale parteciperà tra gli altri Esther Leslie, Professore di Estetica Politica presso Birkbeck, University of London.

La mostra è realizzata con l’ulteriore sostegno di Graham Foundation for Advanced Studies in the Fine Arts, Andrew Kreps Gallery, Collezione E. Righi, Marco Rossi, Fondazione per l’Arte Moderna e Contemporanea CRT.

Hito Steyerl. The City of Broken Windows / La città delle finestre rotte
A cura di Carolyn Christov-Bakargiev e Marianna Vecellio
1 novembre 2018 – 30 giugno 2019
Inaugurazione: 31 ottobre 2018, ore 19

Castello di Rivoli. MUSEO D ’ A R T E CONTEMPORANEA
Piazza Mafalda di Savoia – 10098 Rivoli (Torino) – Italia
tel. +39/011.9565222 – 9565280 fax +39/011.9565231
e-mail: info@castellodirivoli.org

Ufficio Stampa Castello di Rivoli
Manuela Vasco | press@castellodirivoli.org | tel. 011.9565209
Brunella Manzardo | b.manzardo@castellodirivoli.org | tel. 011.9565211

Consulenza Stampa
Anna Gilardi |anna.gilardi@stilema-to.it | tel. 011.530066
Valentina Gobbo Carrer | carrervale@gmail.com | tel. 338.8662116

30
Ott

Jan Fabre: The Castles in the Hour Blue

I Castelli nell’Ora Blu , è la prima mostra personale a Milano dell’artista, creatore teatrale e autore Jan Fabre, curata da Melania Rossi.
In mostra una selezione di lavori – in gran parte in anteprima assoluta perché provenienti dalla collezione dell’artista, e messi ora a disposizione del pubblico- realizzati da Jan Fabre dalla fine degli anni Ottanta, incentrati su due temi particolarmente significativi per l’artista: i castelli e l’Ora Blu. Disegni, collage, film e opere fotografiche compongono un percorso nell’immaginario più “romantico” e poetico, ma sempre radicale e simbolico, di uno degli artisti più interessanti della scena contemporanea.
Se il castello è il luogo della favola romantica per eccellenza, i castelli di Jan Fabre hanno qualcosa di diverso, sono infusi del personale romanticismo dell’artista, che si definisce “cavaliere della disperazione e guerriero della bellezza”.
La tonalità dell’inchiostro Bic ricorda all’artista l’atmosfera di quell’ora speciale tra la notte e il giorno, tra il sonno e la veglia, tra la vita e la morte. L’Ora Blu, teorizzata da Jean Henri Fabre, considerato il padre dell’entomologia, è un momento di totale silenzio e perfetta simmetria in natura, quando gli animali notturni si stanno per addormentare e quelli diurni si stanno svegliando, in cui i processi di metamorfosi hanno atto.
Anche nei grandi formati in mostra, l’attenzione si concentra naturalmente su piccole porzioni di disegno per seguirne le linee ora più lievi, ora più marcate, oppure trova un immaginario punto di fuga negli insetti-foglia applicati sulla carta, che formano profili di torri castellane. Come di fronte al grande telo in seta di quasi diciassette metri (Un Castello nel Cielo per René, 1987) che è esposto all’interno della Basilica di Sant’Eustorgio, al cospetto della scultura nella Cappella Portinari o nell’opera site specific che l’artista ha realizzato sul lucernario di BUILDING, siamo dentro il disegno, che diviene spazio, casa, castello.

Jan Fabre: The Castles in the Hour Blue
a cura di Melania Rossi
22 Sep 201822 Dec 2018

BUILDING
Via Monte di Pietà 23, Milano
Mar – Sab, 10:00 – 19:00

Basilica di Sant’Eustorgio e Cappella Portinari
P.zza Sant’Eustorgio 1, 20122 Milano
Lun – Dom, 10:00 – 17:30
Ingresso Capella Portinari: €6

English below

BUILDING is pleased to present The Castles in the Hour Blue, the first solo exhibition ever held in Milan of the visual artist and theatrical author Jan Fabre. The exhibition, curated by Melania Rossi, will open to the public on 22 September, with site specific installations at BUILDING; it will also feature ad hoc installations in two institutional places of the city of Milan, such as the Basilica of Sant’Eustorgio and the Portinari Chapel.

On view will be a “world premiere” selection of artworks – for the main part, never seen before since part of the artist’s collection, now available to the public for the very first time – made by Jan Fabre since the late Eighties, focused on two themes which are particularly important to the master: castles and the Hour Blue. Drawings, collages, videos and photographic works bring together a journey in the most “romantic” and poetic – but always radical and symbolic – imagery of one of the most important artists on the contemporary scene. The aesthetic and ethical fusion of the two themes in the conception of Jan Fabre, declared in the title of the show, is evident in the exhibited artworks, starting from Tivoli(1990), one of the works that consecrated the artistic career of Jan Fabre at an international level. In this case, Fabre had completely covered the Tivoli castle (Mechelen) in sheets all drawn in blue Bic, which had been left transforming under the sun light and bad weather. A real architectural performance that the artist had been recording during day and night, releasing a 35 mm short movie that will be on view at the gallery. “Sometimes the castle has a purple reflection, sometimes more towards the red, then a silvery glow, to then turn into intense blue bic again. (The sculpture-drawing trembles and lives with its enigmas)”, Fabre writes in his nocturnal diary during the realization of the work.
The tone of the Bic ink reminds the artist of the atmosphere of that special hour between night and day, between sleep and awakening, between life and death. The Hour Blue, a sublime moment of complete silence and perfect symmetry in nature, when nocturnal animals are about to fall asleep and the diurnal ones are waking up, in which the processes of metamorphosis take place. Theorized by Jean-Henri Fabre, considered the father of entomology, the Hour Blue has inspired Jan Fabre a production of Bic pen drawings of different sizes, but it is mostly in the large works that the eye is completely immersed in the dense blue lines, where it is difficult – if not impossible – to embrace the work in its entirety. The drawing, in this production by Fabre, acquires a dignity which is not only autonomous but also three- dimensional, becoming sculpture, architecture; it is not a mere preparation for a painting or a draft sketch for a sculpture, it is an immersive artwork that reveals the most intimate, true and instinctive feeling of the artist’s thought. On this idea Jan Fabre has been working since his beginnings, since the birth of his “bic art”. “I want my viewers to be able to abandon themselves to the physical experience of drowning in the apparently calm sea of my blue bic drawings”, the artist writes in 1988. Even in the large formats on display, the attention is naturally captured by small portions of drawing in order to follow the lines, now subtler, now more marked, or it finds an imaginary point of escape in the leaf-insects applied on the paper, which form profiles of castle towers. As in front of the large silk installation displayed inside the Basilica of Sant’Eustorgio, in presence of the sculptures in the Portinari Chapel or in front of the site specific work that the artist will make at BUILDING, we are inside the drawing, which becomes space, house, castle. If the castle is the place of the romantic fairytale par excellence, Jan Fabre’s castles have something different, they are infused with the personal romanticism of the artist, who defines himself “a knight of despair and a warrior of beauty”. The first aim, the only creed of the artist, is to defend the beauty and fragility of art. Jan Fabre is a contemporary knight who makes castles in the air, castles of cards, rests in his castle and dreams. Tivoli, Wolfskerke, Monopoli, are the castles on which the artist has taken action with his blue sign and which are represented in the artworks on display, covered in the typical light of that special moment in which we can dream of owning a castle, still being in a chivalrous era made of values for which to fight strenuously. The “way of the sword” is “the way of the art”, the true avant-garde of the artist who, while dreaming, draws, writes and invents a personal universe starting from the great tradition that precedes him. Fabre fights to the point of exhaustion in defense of the most authentic, tragic, mad and heroic spirit of the artist and of the man.

Basilica of Sant’Eustorgio and Portinari Chapel
Mon – Sun, 10:00 AM – 5:30 PM
Entrance to Portinari Chapel: €6
P.zza Sant’Eustorgio 1, 20122 Milan

Jan Fabre: The Castles in the Hour Blue
Curated by Melania Rossi

Tue – Sat, 10 AM – 7 PM

Additional venues:
Basilica of Sant’Eustorgio
Portinari Chapel

22
Ott

Ryoji Ikeda

The exhibition Ryoji Ikeda, on show at ers an insightful perspective on the radical work of Japanese audiovisual artist Ryoji Ikeda. The selection ranges from sculptural pieces such as data.scan (2009) and grid.system (nº1-A)(2012) to newly adapted versions of large-scale projections like the radar [3 WUXGA version A] (2012-2018) and data.tron [3 SXGA + version] (2009-2018), and includes two new audiovisual installations made specially by Ikeda for Eye.

Sound artist, electronic composer and visual artist Ryoji Ikeda (born in Gifu in 1966) started in electronic music and now ranks as one of the pioneering artists who approach the fundamental elements of sound and image in a mathematical, physical and aesthetic manner. Ikeda’s career as an audiovisual artist transformed when he joined the multidisciplinary artist collective “dumb type” from Kyoto, which radically renewed theatre in the 1990s. By then, Ikeda had already defined the alphabet of his sonic language in the two fundamental elements of sound: the sine wave and white noise. Inspired by his experience with dumb type, Ikeda broadened his scope of work to encompass both sound and image. He applied a comparable reductionist approach in identifying the pixel as the elementary component of the image.

In his series “datamatics,” featuring data.tron [3 SXGA + version] (2009-2018) and data.scan(2009), both on show in the exhibition, Ikeda investigates how we can perceive and experience vast flows of data that go beyond our comprehension. Each pixel is determined by strict mathematical rules that are applied to the data sets that form the source material. The resulting works are not so much about the abstract data level but about representations of reality that we can generate with data. They are an ode to the scientific imagination and the enthralling exploration of uncharted worlds and aspects of reality that we can now access thanks to science. During his stay at CERN and Ars Electronica Futurelab in 2014-2015, Ikeda explored the world of particle physics and further refined his notion of (big) data. He examined dynamic data but defined his source material exclusively as static data: absolute facts, constant truths such as DNA code, galactic coordinates, or proteins, as in his spellbindingly immersive floor projection data.gram [n ° 1] (2018), which he developed specially for Eye. Here Ikeda also explores his interest in the micro-scale: identifying and isolating the smallest particle, the alphabet of all material. Also on show in the exhibition is 4’33” (2010), Ikeda’s celluloid homage to the iconic work of the American experimental composer John Cage. A framed and sliced strip of blank 16 mm film: the piece forms a conceptual introduction to Ikeda’s ongoing study of the contrast between the continuous and the discrete or discontinuous. In data.tron [3 SXGA + version], Ikeda explores his fascination for the concept of infinity and fundamental mathematical and philosophical questions. Is reality continuous or not? Is it continuous but can we do nothing but apply the modern scientific method of reducing it to elementary particles in order to understand it? The exhibition culminates with the second new piece specially made for the Eye exhibition: point of no return, which represents nothing but a black hole. A black circle is bordered by a clear white light. Shining from the other side is an extremely powerful lamp whose colour temperature approaches that of the sun on the projection screen. According to the general theory of relativity, a black hole in the universe swallows everything. Nothing can escape from it—no material, no information, not even light. There is no way back. In Ikeda’s own words: “This technically simple work is my most metaphysical to date.”

The exhibition is accompanied by films, talks and events in the cinemas at Eye.

On November 23, Ryoji Ikeda will perform a live audiovisual concert at Eye entitled datamatics [version 2.0]. In collaboration with Amsterdam Art Weekend and IDFA.

Ryoji Ikeda
Until December 2, 2018

EYE Filmmuseum
IJpromenade 1
1031 KT Amsterdam
The Netherlands

Image: Ryoji Ikeda photo by Ryuichi Maruo

15
Ott

Alfredo Jaar. Lament of the images

La Galleria Lia Rumma è lieta di annunciare la mostra personale dell’artista cileno Alfredo Jaar che inaugura giovedì 18 ottobre 2018, presso la sede di Milano. La mostra è preceduta, il 17 ottobre alle ore 18.00, da una lecture dell’artista alla Fondazione Gian Giacomo Feltrinelli di Milano.
A 10 anni dall’intervento pubblico Domanda, Domanda per le strade di Milano e dalla personale all’Hangar Bicocca It Is Difficult, Alfredo Jaar torna a Milano con una personale rigorosa e poetica che si sviluppa sui tre piani della Galleria. Al piano terra, l’artista presenta una nuova installazione site-specific WHAT NEED IS THERE TO WEEP OVER PARTS OF LIFE? THE WHOLE OF IT CALLS FOR TEARS (Che bisogno c’è di piangere momenti della vita? La vita intera è degna di pianto), una citazione di Seneca tratta dal “De Consolatione ad Marciam”. L’opera, una scritta al neon rosso, le cui lettere sono disposte come una pioggia di lacrime a cui il testo allude, è l’unica fonte di luce nello spazio che si presenta completamente rosso. Il lavoro è un riferimento poetico al progetto pubblico che Jaar sta realizzando per la città di Milano curato da Roberto Pinto: un grande cubo di cemento, attraverso la cui vetrata rossa il visitatore può osservare la città “filtrata” dal colore rosso. Un gesto nostalgico e malinconico e insieme un omaggio, secondo l’artista, alla sinistra italiana che sta scomparendo.
Al primo piano, Lament of the Images, che dà il titolo alla mostra, è composta da due tavoli fotografici luminosi, di solito usati nei laboratori fotografici per guardare i negativi.  Il tavolo superiore, montato al contrario e sospeso al soffitto, lentamente si avvicina a quello inferiore, fino a lasciare solo una sottile linea di luce proveniente dalla fessura tra le due superfici che poi, come per dare inizio a un nuovo ciclo di visioni, si allontanano. Volutamente non è presente nessuna immagine. Dice infatti Jaar: “Credo che abbiamo perso la capacità di vedere ed essere scossi dalle immagini”. La mostra si completa al secondo piano con Shadows che fa parte della trilogia – iniziata con The Sound of Silence, esposta nel 2008 all’Hangar Bicocca di Milano – in cui Jaar indaga il potere e la politica delle immagini iconiche. Entrando in un corridoio buio si incontrano sei piccoli lightbox, una sequenza di immagini del fotoreporter olandese Koen Wessing scattate in Nicaragua nel 1978 che documentano gli eventi che seguono la morte di un contadino ucciso dalla Guardia Nazionale del regime di Somoza nei giorni della guerra civile. Si passa poi in una stanza più grande, anch’essa completamente oscurata, dove è presentata l’immagine di due donne, le figlie del contadino, nel momento in cui vengono a sapere dell’uccisione del padre. Le donne, devastate dal dolore, alzano le braccia al cielo. L’immagine lentamente diventa una luce accecante. Per Jaar quest’immagine è “la più potente espressione del dolore” che abbia mai visto.

Alfredo Jaar è artista, architetto e regista. Vive e lavora a New York. Nato a Santiago del Cile (1956), il lavoro di Jaar è stato esposto in tutto il mondo. Ha partecipato alle Biennali di Venezia (1986, 2007, 2009, 2013), São Paulo (1987, 1989, 2000) e a Documenta a Kassel (1987, 2002). Sue importanti mostre personali includono il New Museum of Contemporary Art, New York; Whitechapel, Londra; il Museum of Contemporary Art, Chicago; il Museo di Arte Contemporanea (MACRO) di Roma e al Moderna Museet di Stoccolma. Un’ampia retrospettiva sul suo lavoro è stata ospitata nell’estate del 2012 in tre spazi istituzionali a Berlino: la Berlinische Galerie, la Neue Gesellschaft fur bildende Kunst e.V. e la Alte Nationalgalerie. Nel 2014 il Museum of Contemporary Art Kiasma di Helsinki gli ha dedicato la più completa restrospettiva della sua carriera. Jaar ha realizzato più di sessanta interventi pubblici nel mondo. Sono state pubblicate oltre cinquanta monografie sul suo lavoro. È diventato Guggenheim Fellow nel 1985 e MacArthur Fellow nel 2000. Il suo lavoro fa parte delle collezioni del MAXXI e del MACRO di Roma, del Museum of Modern Art e del Guggenheim Museum di New York, del MCA di Chicago, del MOCA e del LACMA di Los Angeles, della TATE di Londra, del Centre Georges Pompidou di Parigi, del Centro Reina Sofia di Madrid, del Moderna Museet di Stoccolma, del Louisiana Museum of Modern Art di Humlebaek e in molte altre collezioni pubbliche e private del mondo.

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03
Ott

SARAH SZE

In the age of the image, a painting is a sculpture. A sculpture is a marker in time.
—Sarah Sze

Gagosian is pleased to present new works by American artist Sarah Sze. This is Sze’s first gallery exhibition in Italy, following her participation in the Biennale di Venezia in 2013 (Triple Point, US Pavilion) and 2015.

Sze’s art utilizes genres as generative frameworks, uniting intricate networks of objects and images across multiple dimensions and mediums, from sculpture to painting, drawing, printmaking, and video installation. She has been credited with changing the very potential of sculpture. Working from an inexhaustible supply of quotidian materials, she assesses the texture and metabolism of everything she touches, then works to preserve, alter, or extend it. Likewise, images culled from countless primary and secondary sources migrate from the screen to manifest on all manner of physical supports—or as light itself. A video installation, the latest of Sze’s Timekeeper series begun in 2015, transforms the oval gallery of Gagosian Rome into a lanterna magica, an immersive environment that is part sculpture, part cinema. In these studies of the image in motion, at once expansive and intimate, time, place, distance, and the construction of memory are engaged through a mesmerizing flux of projected images, both personal and found. A sort of Plato’s Cave, the new work confronts the viewer from simultaneous points of view: moving pictures of people, animals, scenes, and abstractions unfold, flickering and orbiting randomly like thought, or life itself. In an in-situ gesture that links the darkened video gallery with the adjoining room of new panel paintings, Sze materializes light as a spill of paint applied directly to the stone floor. In the paintings, her nuanced sculptural language adapts to the conditions of the flat support. In delicate yet bold layers of paint, ink, paper, prints, and objects, the three dimensions of bricolage are parsed into the two dimensions of collage. Here, color draws its substantive energies as much from the innate content of found images as from paint and ink. Fields of static, blots, and cosmic vortices emerge out of archival material drawn from the studio and its daily workings in endless visual permutations that collide and overlap in an abundance of surface detail. In November, Sze will add her first outdoor stone sculpture to the exhibition, a natural boulder split open like a geode. Each of the two revealed cuts has a sunset sky embedded in its flat surface, alluding to both the images perceptible in gongshi (scholar’s rocks) and the heavenly subjects of Renaissance paintings. From November 19, Sze’s large-scale installation Seamless (1999) will be on view at Tate Modern, London.

SARAH SZE
Inaugurazione: sabato 13 ottobre, 18:00 – 20:00
13 ottobre 2018–12 gennaio 2019

Gagosian
Via Francesco Crispi 16
00187 Rome
T. 39.06.4208.6498
roma@gagosian.com
Hours: Tue–Sat 10:30-7

Ufficio Stampa PCM Studio
Federica Farci | federica@paolamanfredi.com | +39 342 05 15 787

Karla Otto
Lissy Von Schwarzkopf | lissy.vonschwarzkopf@karlaotto.com| +44 20 7287 9890

Ottavia Palomba | ottavia.palomba@karlaotto.com | +33 6 67 88 32 29
Michel Hakimian | michel.hakimian@karlaotto.com | +33 6 12 59 41 93

Gagosian
Matilde Marozzi | pressrome@gagosian.com | +39 06 4208 6498

Image: Sarah Sze, Untitled, 2018(dettaglio), olio,acrilico, cartad’archivio, stabilizzatori UV, adesivo, scotch, inchiostro e polimeri acrilici, gommalacca, e vernice ad acqua su legno, 213.4×266.7×8.9cm©SarahSze

01
Ott

Black Hole. Arte e matericità tra Informe e Invisibile

Dal 4 ottobre 2018 al 6 gennaio 2019 la GAMeC presenta Black Hole. Arte e matericità tra Informe e Invisibile, prima mostra di un ambizioso ciclo espositivo triennale dedicato al tema della materia, ideato da Lorenzo Giusti e sviluppato insieme a Sara Fumagalli, con la consulenza scientifica del fisico Diederik Sybolt Wiersma e la partecipazione di BergamoScienza.
Attivando un dialogo con la storia delle scoperte scientifiche e tecnologiche e un confronto con lo sviluppo delle teorie estetiche, Black Hole rivolge lo sguardo al lavoro di quegli artisti che hanno indagato l’elemento materiale nella sua più intrinseca valenza, laddove il concetto stesso di “materiale” si infrange per aprirsi a un’idea più profonda di “materia” come elemento originario, come sostanza primordiale costituente il tutto.
In particolare, l’esposizione intende raccontare questa dimensione attraverso tre diverse restituzioni: quella di chi ha guardato all’elemento materiale, concreto, come a un’entità originaria, precedente o alternativa alla forma; quella di chi ha interpretato la natura umana come parte di un più ampio discorso materiale e quella di chi, nel processo di penetrazione della materia, si è spinto nel profondo, ai confini della materialità stessa, cogliendone la dimensione infinitesimale ed energetica.

Attraverso una ricca selezione di opere realizzate tra la fine dell’Ottocento e i giorni nostri, il percorso espositivo illustra, all’interno di un’unica visione integrata, questa preziosa dialettica, oscillante tra la materialità dell’Informe e la materialità dell’Invisibile, poli soltanto apparentemente antitetici e in realtà coesistenti e complementari.

Sezione 1 – Informe
Le acquisizioni della scienza – dal principio di indeterminazione di Heisenberg alla metodologia quantistica – e la loro circolazione culturale, che le ha rese a noi familiari, hanno profondamente influenzato la visione degli artisti, al punto da condizionarne non soltanto la percezione delle cose e del mondo, ma anche la più profonda sostanza del loro operare.
In dialogo con lo sviluppo di queste scoperte, le opere presenti all’interno della prima sezione rifuggono dunque dal rappresentare il mondo e utilizzano materiali, sia tradizionali sia inusuali, non come elementi da plasmare con l’intento di creare nuove forme, ma in virtù della loro valenza intrinseca, del loro presentarsi come “elementi in sé”.
Configurazioni materiche che, per la loro indeterminatezza, restituiscono un’idea della realtà come sostanza in continuo mutamento.
Si collocano all’origine di questo percorso le ricerche di Jean Fautrier, con le sue concrezioni di colore stratificato, e di Lucio Fontana, con le sue Nature di materia incisa, la quale, penetrata e lacerata, animandosi si fa opera.
Una linea di ricerca che prosegue – tra gli altri – con le superfici grumose intessute di fenditure e lacerazioni di Antoni Tàpies, la densità bituminosa delle Combustioni e dei Cretti di Alberto Burri, presente anche nei primi lavori di Piero Manzoni, e, decenni più tardi, i Big Clay “senza forma” di Urs Fischer, le statue “colanti” di Cameron Jamie, le eteree astrazioni screpolate di Ryan Sullivan.

Sezione 2 – Uomo-Materia
La materia che permea l’universo e che tutto crea e compone definisce anche la natura umana. Questo lasciano intendere i lavori degli artisti presenti nella seconda sezione della mostra, dove, all’interno di un percorso articolato e trasversale, sono messe a confronto le opere di autori di generazioni diverse contraddistinte da una forte componente materica e allo stesso tempo da una presenza, più o meno manifesta, dell’elemento antropomorfo. Lavori in cui il corpo umano è dunque in primis un “corpo materico” e in cui la figura, accennata o scomposta, si fa veicolo di una visione integrata del mondo, tenuta assieme dal principio stesso della materia.
Le sintesi plastiche di Auguste Rodin e Medardo Rosso, con le loro immagini di volti e corpi affioranti da blocchi indistinti, costituiscono un significativo precedente storico per la ricerca di una serie di artisti che, in forme diverse, hanno fatto convergere dentro un’unica visione creativa il discorso sulla materia e l’indagine sull’uomo. Ne è un esempio Alberto Giacometti, con le sue figure “intrappolate”, “sempre a mezza via fra l’essere e il non essere”, per citare Jean-Paul Sartre, così come lo scultore svizzero Hans Josephsohn, con le sue caratteristiche teste monolitiche, imprigionate dentro blocchi di materia compatta.

Volto e materia, prettamente pittorica, ritornano nei primi dipinti informali di Enrico Baj, nelle Dame di Jean Dubuffet degli inizi degli anni Cinquanta così come nei lavori di Karel Appel e Asger Jorn, storici membri del gruppo Cobra, caratterizzati dall’utilizzo di colori brillanti, violente pennellate e figure umane distorte.
A questi maestri della modernità sono affiancati lavori di artisti contemporanei, da William Tucker, con i suoi agglomerati di materia a metà tra la roccia e il corpo umano, a Florence Peake, con le sue sculture informali, esito di performance collettive in cui corpo e materia sembrano cercare una sintesi dinamica.

Sezione 3 – Invisibile
Diversamente da quelle della prima e della seconda sezione, testimoni di una relazione fisica con la materia – incisa, spatolata, graffiata, bruciata, colata, e pur sempre materia “in sé” – le opere presenti nella terza sezione guardano agli aspetti più nascosti della materia, invisibili ai nostri occhi, in dialogo con la dimensione atomistica e subatomica.
Punto di partenza di un discorso in evoluzione che trova ampio sviluppo nei linguaggi della contemporaneità sono le celebri Tessiturologie di Jean Dubuffet, visioni ravvicinate, microscopiche, di un generico “elemento materiale”, di cui si restituisce
visivamente l’idea dell’incessante brulichio interno. Una ricerca che trova eco nelle esplosioni di “materia-luce” di Tancredi Parmeggiani, o ancora nelle composizioni degli artisti del Movimento Arte Nucleare – fondato nel 1951 da Enrico Baj e Sergio Dangelo, con l’aggiunta, un anno dopo, di Joe Colombo – che rielaborano in forma visiva le suggestioni provocate dall’esplosione della bomba atomica alla fine del secondo conflitto mondiale.
Dal dopoguerra alla contemporaneità, gli artisti creano nuove immagini di ciò che le teorie scientifiche suggeriscono, ma che parole e illustrazioni non riescono descrivere. La nozione classica di “materia”, valida dal familiare livello degli oggetti visibili fino al livello molecolare e atomico, sfuma ai livelli subatomici, abbracciando il concetto di energia.
Così, lavorando a stretto contatto con i Laboratori Nazionali del Gran Sasso – tra i più importanti istituti di ricerca a livello mondiale per lo studio dei neutrini – Jol Thomson crea un dialogo fra scienza e arte, indagando i territori dell’ignoto materiale, dell’intangibile e del non-ottico. Su questa linea di ricerca si muovono anche le performance di Hicham Berrada, che invita lo spettatore a fare esperienza diretta delle energie e delle forze che emergono dalla materia, e i Photograms di Thomas Ruff, le cui composizioni astratte nascono dalla consapevolezza dell’esistenza di un universo microscopico, oltre la dimensione tangibile delle cose.
Nella loro diversità di approcci, i lavori presentati in questa sezione testimoniano la medesima urgenza di interrogarsi sulle implicazioni filosofiche, percettive e conoscitive delle rivoluzionarie scoperte scientifiche della nostra epoca.

MERU ART*SCIENCE RESEARCH PROGRAM
La mostra si avvarrà del contributo della Fondazione Meru – Medolago Ruggeri per la ricerca biomedica, che nell’ambito della “Trilogia della materia”, e quale parte del programma del festival BergamoScienza, ha dato vita a un nuovo progetto di ricerca – Meru Art*Science Research Program – finalizzato alla realizzazione di interventi “site specific” dedicati al rapporto arte-scienza.
Coordinato da Anna Daneri, insieme ad Alessandro Bettonagli e Lorenzo Giusti, il programma vede, per questa prima edizione, la partecipazione degli artisti Evelina Domnitch & Dmitry Gelfand, che per lo Spazio Zero della GAMeC hanno progettato un’installazione ambientale capace di declinare sul piano visivo l’interazione di due buchi neri attraverso un cunicolo spazio-temporale (wormhole), laddove cioè la materia dell’universo collassa su se stessa per rigenerarsi.Continue Reading..